martedì 6 luglio 2021

Recensioni e opinioni: Predatore (Gary Jennings)


Prima di leggere Predatore, conoscevo Gary Jennings per un solo romanzo, peraltro il suo più famoso e acclamato: L'azteco. Che per inciso è anche uno dei miei tre romanzi preferiti, insieme al sempiterno Il Signore degli Anelli e a Dune. E proprio perché ho amato tanto quel primo romanzo, le mie aspettative con Predatore erano altissime.
Del resto, le premesse per un ottimo romanzo storico c'erano tutte, perché l'opera si presentava fin dalla quarta di copertina come la storia di un ermafrodita goto negli ultimi anni di vita dell'impero romano: un periodo segnato da grandi migrazioni di popoli, repentini passaggi di potere e gesta eroiche presto entrate nella leggenda (chi studia le letterature germaniche o medievali avrà almeno sentito parlare del ciclo epico di Dietrich von Bern, che altro non è che la versione romanzata e leggendaria delle gesta di Teodorico il Grande). E poi c'era quel particolare, la natura ermafrodita del protagonista, che mi incuriosiva. Non mi scoraggiava, invece, la mole del tomo: 800 pagine sono tante, ma ci sono abituato fin da quando muovevo i primi passi nel mondo letterario e mi nutrono avidamente dei romanzoni extra-large di Dumas.
Giunto all'ultima pagina del romanzo di Jennings, posso dare un giudizio che è ambiguo e ambivalente tanto quanto la natura del suo personaggio principale, il mannamavi Thorn: Predatore è un romanzo con tanti, troppi difetti, ma che nonostante questo è riuscito a catturarmi, a spingermi a divorarlo pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, perché nonostante i mille problemi della scrittura ha qualcosa che mi ha conquistato. E che alla fine mi ha anche commosso, devo ammetterlo.
Il primo, vero problema di Predatore è la sua trama. In realtà è un problema relativo, perché se lo si legge senza aver letto altro di Jennings può sembrare una trama originale e intrigante. Chi ha letto L'azteco, invece, troverà nelle vicende di Thorn una sbiadita fotocopia di quelle di Mixtli, il protagonista del suddetto romanzo: entrambi sono giovani brillanti e intelligenti, entrambi si fanno largo nel mondo ora come mercanti e ora come guerrieri pur non avendo ricevuto un vero addestramento militare, entrambi lavorano a stretto contatto con un grande sovrano, entrambi partono per un lungo viaggio alla ricerca delle origini del proprio popolo, entrambi amano molte donne (e uomini), entrambi vivono molti lutti (un modo carino per dire che portano sfiga e causano la morte di chiunque incroci troppo a lungo le loro strade), e la lista potrebbe continuare all'infinito. Peraltro, questi elementi nell'Azteco erano gestiti molto meglio: per esempio, la quest riguardante la terra d'origine degli Aztechi ha una solida ragione politica, la ricerca di alleati politici e militari, mentre la corrispettiva missione di Predatore per scoprire la patria ancestrale dei Goti nasce da un banale capriccio di Teodorico.
Il secondo problema, ben più grave, risiede nella scrittura stessa di Jennings. Predatore è presentato come un manoscritto di Thorn stesso, scritto in prima persona, ritrovato fortuitamente  e tradotto dall'autore, secondo un espediente che non può non ricordare Manzoni. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che la pretesa di estremo realismo alla base del romanzo si scontra con un uso dei dialoghi che di realistico ha poco. Il manoscritto fittizio di Thorn è la fiera degli spiegoni: non soltanto il narratore stesso si lascia andare a continue e inutili digressioni che appesantiscono il racconto, ma persino i dialoghi sono costruiti per fornire informazioni al lettore in maniera totalmente inverosimile.
Cito un esempio fra tanti. Siamo a uno dei primi scontri fra Teodorico e Odoacre, e si discute di tattiche militari:

"Che stupidi!" esclamò tutto allegro Freidereikhs. "Teodorico, so bene che non vorrai ingaggiare battaglia fino a quando non avrai sistemato come vuoi tutti i fanti e i cavalieri. Nel frattempo, però, lascia che porti i Rugi dietro le linee nemiche, così..."
"Sta' zitto, ragazzo, e impara qualcosa" disse con aria burbera ma non sgarbata Teodorico. Poi voltò le spalle al giovane re per dare istruzioni a Pitzias, Ibba ed Herduic di far schierare le loro centurie, corti e turmae lì, lì e lì. Infine Teodorico si rivolse di nuovo al ragazzo: "Lascia che ti spieghi che cosa sto per fare e perché lo faccio, in modo che..."
"Ma ho già capito, Teodorico!" l'interruppe il ragazzo, e per l'eccitazione lo sommerse con un torrente di parole. "Appena i generali avranno radunato, schierato e istruito le loro truppe e avranno cominciato ad avanzare, farai sferrare l'attacco principale alla cavalleria di Ibba, che si disporrà secondo quello che si chiama la 'formazione a branco di porci' - uno schieramento triangolare ideato dal grande dio Wotan quando, nei tempi antichi, scese sulla terra per divertirsi un po' nelle vesti di Jalk l'Uccisore di Giganti, e notò per caso che un branco di maiali selvatici galoppava nella foresta disponendosi come un triangolo con la punta in avanti, e spazzando via qualunque animale si trovasse davanti...

Ecco, un dialogo del genere (e questo è solo un assaggio, perché continua per un'altra pagina) non è minimamente verosimile. Neanche se si ammettesse che il giovane Freidereikhs vuole fare l'Hermione Granger di turno. È un dialogo irrealistico messo su per far sapere al lettore determinate informazioni, ma che nella realtà non sarebbe mai avvenuto perché dei due interlocutori uno sa già tutte queste cose e l'altro non ha bisogno di essere così prolisso per far capire che sa di cosa sta parlando.
Vi è poi la questione del sesso. Ormai ho capito che un certo filone di historical fiction statunitense crede nell'equazione "+ sesso = + qualità" e si diverte a infilare orge, stupri e amplessi quanto più strani possibili ogni 2-3 pagine, ma in Predatore si abbonda, anzi si esagera. E non parlo tanto della quantità, perché non sono un puritano, ma della qualità: sembra che Jennings abbia voluto condensare in un unico romanzo decine e decine di bizzarrie e perversioni sessuali che, per motivi di decenza, eviterò di elencare qui. Basti solo dire che a un certo punto saltano fuori fanciulle che avvelenano gli amanti tramite i loro organi sessuali, dettaglio che mi ha lasciato con l'atroce dubbio se il nome vada pronunciato venéfica o se l'accento vada messo una sillaba più giù.
La stessa identità sessuale e di genere di Thorn, a mio avviso, è gestita male. O meglio, è ricca di potenzialità che non sono state sfruttate a dovere, dando vita all'ennesima occasione sprecata. Il protagonista del romanzo è, come già detto, un ermafrodita dotato sia di pene sia di vagina perfettamente funzionanti (cosa che non so quanto sia biologicamente credibile, ammetto la mia ignoranza in materia), e vive alternativamente la sua identità di maschio o di femmina; ma sono due identità perfettamente distinte, nel senso che Thorn non è mai CONTEMPORANEAMENTE uomo e donna, o un qualcosa al di là dei due sessi "binari". Certo, il romanzo è ambientato nel V-VI secolo d.C. e un non-binario all'epoca sarebbe stato a dir poco irrealistico, ma quando Thorn è uomo è attratto solo da donne, quando è donna (e assume l'identità di Veleda) cerca solo uomini: dunque non solo l'ermafroditismo si risolve di volta in volta in un unico sesso, ma anche in un unico orientamento sessuale alla volta. Non c'è, insomma, quella piacevole e intrigante "confusione" che mi sarei aspettato di trovare in un ermafrodita. In giro per il web ho trovato pagine in cui si accusa addirittura Jennings di essere omofobo: affermazioni forse eccessive, ma l'impressione che l'autore non nutra molta simpatia per uomini che amano uomini e donne che amano donne è palpabile nelle pagine di Predatore (e un po' si percepiva anche in L'Azteco).
Eppure, nonostante tutto, Predatore non è un romanzo da buttare. La scrittura di Jennings sarà pure pesante e pedante, ricca di contenuti sessuali non richiesti e inutilmente disturbanti, piena di situazioni già viste negli altri suoi romanzi, traboccante di spiegoni e infodump non richiesti, ma il buon vecchio romanziere sa come attizzare la curiosità del lettore alla fine di quasi ogni capitolo e sotto-capitolo, ora con un cliffhanger, ora con un'inaspettata e nebulosa anticipazione di eventi futuri. Se un paragrafo si chiude con una frase del tipo "Io e X ci mettemmo in viaggio, ma ancora non sapevo che X avrebbe fatto una brutta fine..." oppure del tipo "Così io e Y ci lasciammo, senza sapere che anni dopo avremmo..." è naturale che io mi fiondi sulla pagina successiva, anche se sono ancora intossicato da centinaia e centinaia di righe di sesso perverso e di spiegazioni degne di un documentario più che di un romanzo. Jennings è bravo a farsi perdonare alimentando la fame di conoscenza del lettore, ed è anche un po' paraculo, ammettiamolo. Un po' tanto, a dire il vero.
Infine, Predatore è un romanzo che sa colpire al cuore. Non certo per una qualche immedesimazione in Thorn, che non suscita particolare simpatia, grazie alla sua caratterizzazione da perfetto Gary Stu/Mary Sue: è intelligentissimo, brillantissimo, fortunatissimo, prestantissimo, astutissimo, bellissimo, seduce chiunque, se la cava in ogni circostanza... no, non certo per Thorn. Jennings è tanto impacciato a delineare la figura del protagonista quanto è bravissimo a gestire le uscite di scena dei tanti personaggi maggiori e minori, principali e secondari, con cui Thorn interagisce. L'avevo già intuito nell'Azteco e Predatore me l'ha confermato: Jennings è il "poeta" delle morti dei personaggi, raramente ho trovato un autore così bravo a rendere potenti e coinvolgenti le uscite di scena, dalla più insignificante alla più truce e violenta. Soprattutto, raramente ho trovato un romanzo che mi facesse quasi piangere (quasi, eh, devo mantenere una parvenza di insensibilità!) per la morte di gente che tutto sommato nemmeno esiste.
Forse un po' poco per perdonare tutti i difetti del romanzo, ma mi piace cercare qualcosa di buono anche nel romanzo peggiore: e Predatore non lo è, per quanto non sia nemmeno un capolavoro.

Nessun commento:

Posta un commento