mercoledì 29 settembre 2021

L'amore ai tempi del buco nero

La navicella stava per varcare il punto di non ritorno.
Leland cercò lo sguardo della moglie. «Sai, più aumenta il potenziale gravitazionale e più lentamente scorre il tempo... e la gravità di un buco nero è così forte che nemmeno la luce può sfuggirgli...»
«Allora...?»
«Sì, tesoro...»
Le loro labbra si cercarono e si trovarono proprio mentre varcavano l'orizzonte degli eventi.
Per loro fu l'istante di un'ultima tenerezza, ma per l'universo quel bacio sarebbe durato infiniti eoni. 

mercoledì 15 settembre 2021

Cronopasticci 1940

Bill era appena tornato dalla missione.
«Com'è andata, soldato?» domandò il comandante Gates.
«Benissimo, signore! Il bersaglio è morto, signore!»
«Sei sicuro?»
«Sissignore, morto stecchito. Un colpo in fronte e boom! il suo cervello era ovunque, signore.»
«Ben fatto, soldato! Grazie a te abbiamo risparmiato al XX secolo terribili orrori... e dimmi, come era Berlino?»
«Ma... il bersaglio era a Los Angeles, signore...»
Un’ombra comparve sul volto del comandante. «Tu non hai... ucciso Charlie Chaplin, vero?»
«Oh, adesso capisco perché era sul set di un film!» 

mercoledì 8 settembre 2021

La grande piaga nel cosmo

La piaga apparve presso Andromeda.
Era un piccolo, innocuo taglio lucente nel continuum spazio-tempo. Ben presto si allargò fino a inglobare M31 e le galassie limitrofe.
Seguirono le due Nubi di Magellano.
La prossima era la Via Lattea, ma l'umanità non visse abbastanza a lungo da vedere le stelle e i mondi più vicini ingoiati da quella mostruosità cosmica, men che meno la fine del proprio. Il panico esplose e l'isteria generale portò quegli ominidi all'autodistruzione prima che lo facesse la gigantesca piaga. 

mercoledì 25 agosto 2021

Giungemmo: è il Fine

Alexandros, signore di mille miliardi di galassie, contemplava dalla nave ammiraglia il pianetino appena occupato dalle sue truppe.
«Generale Gigas, qual è il prossimo mondo da conquistare?»
«In verità, mio glorioso signore, questo era l’ultimo...»
«L’ultimo? Vuol dire che...?»
«Avete sottomesso ogni singolo pianeta di ogni singola galassia di questo universo.»
Quel giorno Alexandros scoprì che i sogni muoiono nell'esatto momento in cui si realizzano.

Ispirato alla poesia "Alexandros" di Giovanni Pascoli.

mercoledì 11 agosto 2021

Orgoglio e pentimento

Il dottor Gulliver provò a premere il grilletto della pistola laser, ma il gigantesco ragno gli fu addosso in un lampo e affondò i cheliceri velenosi nel suo petto.
Paralizzato, l'uomo non poteva fare altro che attendere l'effetto delle mortali necrotossine, ripensando con orgoglio al dispositivo rimpicciolente perfettamente funzionante che aveva creato, primo nella storia dell'umanità, ma anche maledicendo la fretta con cui l'aveva attivarlo senza controllare che non ci fossero creaturine carnivore nelle vicinanze. 

mercoledì 28 luglio 2021

Gremlin

«Houston, abbiamo un problema.»
«Cosa succede, Thompson?»
«Credo che... credo che ci sia qualcosa fuori dal modulo... nello spazio... e ci sta...»
«Smettila con gli scherzi, Thompson! Gli omini verdi esistono solo nei film!»
Thompson avrebbe tanto voluto che quello fosse solo uno scherzo o il frutto della sua immaginazione, ma la creatura verdognola che affondava gli artigli nel rivestimento del modulo lunare, rivolgendo occhiatine sadiche alla telecamera esterna coi suoi occhietti giallastri, era fin troppo reale e pericolosa. 

mercoledì 14 luglio 2021

Aquarium

«Un esemplare così non l'hai mai visto… viene dal pianeta Eridani VII e mi è costato una fortuna, ma credo che valga tutti i soldi che ho speso!»
Ero abituato alle stranezze di Sanjay, ma stavolta sobbalzai inorridito. Dall'altra parte del vetro i miei occhi incrociarono le iridi vispe e piene di intelligenza di una creatura umanoide, dalle mani palmate e il corpo terminante in una coda di pesce.
E mi tornò alla mente una parola dell'antica mitologia terrestre, perfetta per descrivere un siffatto essere: «Sirena...»

martedì 6 luglio 2021

Recensioni e opinioni: Predatore (Gary Jennings)


Prima di leggere Predatore, conoscevo Gary Jennings per un solo romanzo, peraltro il suo più famoso e acclamato: L'azteco. Che per inciso è anche uno dei miei tre romanzi preferiti, insieme al sempiterno Il Signore degli Anelli e a Dune. E proprio perché ho amato tanto quel primo romanzo, le mie aspettative con Predatore erano altissime.
Del resto, le premesse per un ottimo romanzo storico c'erano tutte, perché l'opera si presentava fin dalla quarta di copertina come la storia di un ermafrodita goto negli ultimi anni di vita dell'impero romano: un periodo segnato da grandi migrazioni di popoli, repentini passaggi di potere e gesta eroiche presto entrate nella leggenda (chi studia le letterature germaniche o medievali avrà almeno sentito parlare del ciclo epico di Dietrich von Bern, che altro non è che la versione romanzata e leggendaria delle gesta di Teodorico il Grande). E poi c'era quel particolare, la natura ermafrodita del protagonista, che mi incuriosiva. Non mi scoraggiava, invece, la mole del tomo: 800 pagine sono tante, ma ci sono abituato fin da quando muovevo i primi passi nel mondo letterario e mi nutrono avidamente dei romanzoni extra-large di Dumas.
Giunto all'ultima pagina del romanzo di Jennings, posso dare un giudizio che è ambiguo e ambivalente tanto quanto la natura del suo personaggio principale, il mannamavi Thorn: Predatore è un romanzo con tanti, troppi difetti, ma che nonostante questo è riuscito a catturarmi, a spingermi a divorarlo pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, perché nonostante i mille problemi della scrittura ha qualcosa che mi ha conquistato. E che alla fine mi ha anche commosso, devo ammetterlo.
Il primo, vero problema di Predatore è la sua trama. In realtà è un problema relativo, perché se lo si legge senza aver letto altro di Jennings può sembrare una trama originale e intrigante. Chi ha letto L'azteco, invece, troverà nelle vicende di Thorn una sbiadita fotocopia di quelle di Mixtli, il protagonista del suddetto romanzo: entrambi sono giovani brillanti e intelligenti, entrambi si fanno largo nel mondo ora come mercanti e ora come guerrieri pur non avendo ricevuto un vero addestramento militare, entrambi lavorano a stretto contatto con un grande sovrano, entrambi partono per un lungo viaggio alla ricerca delle origini del proprio popolo, entrambi amano molte donne (e uomini), entrambi vivono molti lutti (un modo carino per dire che portano sfiga e causano la morte di chiunque incroci troppo a lungo le loro strade), e la lista potrebbe continuare all'infinito. Peraltro, questi elementi nell'Azteco erano gestiti molto meglio: per esempio, la quest riguardante la terra d'origine degli Aztechi ha una solida ragione politica, la ricerca di alleati politici e militari, mentre la corrispettiva missione di Predatore per scoprire la patria ancestrale dei Goti nasce da un banale capriccio di Teodorico.
Il secondo problema, ben più grave, risiede nella scrittura stessa di Jennings. Predatore è presentato come un manoscritto di Thorn stesso, scritto in prima persona, ritrovato fortuitamente  e tradotto dall'autore, secondo un espediente che non può non ricordare Manzoni. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che la pretesa di estremo realismo alla base del romanzo si scontra con un uso dei dialoghi che di realistico ha poco. Il manoscritto fittizio di Thorn è la fiera degli spiegoni: non soltanto il narratore stesso si lascia andare a continue e inutili digressioni che appesantiscono il racconto, ma persino i dialoghi sono costruiti per fornire informazioni al lettore in maniera totalmente inverosimile.
Cito un esempio fra tanti. Siamo a uno dei primi scontri fra Teodorico e Odoacre, e si discute di tattiche militari:

"Che stupidi!" esclamò tutto allegro Freidereikhs. "Teodorico, so bene che non vorrai ingaggiare battaglia fino a quando non avrai sistemato come vuoi tutti i fanti e i cavalieri. Nel frattempo, però, lascia che porti i Rugi dietro le linee nemiche, così..."
"Sta' zitto, ragazzo, e impara qualcosa" disse con aria burbera ma non sgarbata Teodorico. Poi voltò le spalle al giovane re per dare istruzioni a Pitzias, Ibba ed Herduic di far schierare le loro centurie, corti e turmae lì, lì e lì. Infine Teodorico si rivolse di nuovo al ragazzo: "Lascia che ti spieghi che cosa sto per fare e perché lo faccio, in modo che..."
"Ma ho già capito, Teodorico!" l'interruppe il ragazzo, e per l'eccitazione lo sommerse con un torrente di parole. "Appena i generali avranno radunato, schierato e istruito le loro truppe e avranno cominciato ad avanzare, farai sferrare l'attacco principale alla cavalleria di Ibba, che si disporrà secondo quello che si chiama la 'formazione a branco di porci' - uno schieramento triangolare ideato dal grande dio Wotan quando, nei tempi antichi, scese sulla terra per divertirsi un po' nelle vesti di Jalk l'Uccisore di Giganti, e notò per caso che un branco di maiali selvatici galoppava nella foresta disponendosi come un triangolo con la punta in avanti, e spazzando via qualunque animale si trovasse davanti...

Ecco, un dialogo del genere (e questo è solo un assaggio, perché continua per un'altra pagina) non è minimamente verosimile. Neanche se si ammettesse che il giovane Freidereikhs vuole fare l'Hermione Granger di turno. È un dialogo irrealistico messo su per far sapere al lettore determinate informazioni, ma che nella realtà non sarebbe mai avvenuto perché dei due interlocutori uno sa già tutte queste cose e l'altro non ha bisogno di essere così prolisso per far capire che sa di cosa sta parlando.
Vi è poi la questione del sesso. Ormai ho capito che un certo filone di historical fiction statunitense crede nell'equazione "+ sesso = + qualità" e si diverte a infilare orge, stupri e amplessi quanto più strani possibili ogni 2-3 pagine, ma in Predatore si abbonda, anzi si esagera. E non parlo tanto della quantità, perché non sono un puritano, ma della qualità: sembra che Jennings abbia voluto condensare in un unico romanzo decine e decine di bizzarrie e perversioni sessuali che, per motivi di decenza, eviterò di elencare qui. Basti solo dire che a un certo punto saltano fuori fanciulle che avvelenano gli amanti tramite i loro organi sessuali, dettaglio che mi ha lasciato con l'atroce dubbio se il nome vada pronunciato venéfica o se l'accento vada messo una sillaba più giù.
La stessa identità sessuale e di genere di Thorn, a mio avviso, è gestita male. O meglio, è ricca di potenzialità che non sono state sfruttate a dovere, dando vita all'ennesima occasione sprecata. Il protagonista del romanzo è, come già detto, un ermafrodita dotato sia di pene sia di vagina perfettamente funzionanti (cosa che non so quanto sia biologicamente credibile, ammetto la mia ignoranza in materia), e vive alternativamente la sua identità di maschio o di femmina; ma sono due identità perfettamente distinte, nel senso che Thorn non è mai CONTEMPORANEAMENTE uomo e donna, o un qualcosa al di là dei due sessi "binari". Certo, il romanzo è ambientato nel V-VI secolo d.C. e un non-binario all'epoca sarebbe stato a dir poco irrealistico, ma quando Thorn è uomo è attratto solo da donne, quando è donna (e assume l'identità di Veleda) cerca solo uomini: dunque non solo l'ermafroditismo si risolve di volta in volta in un unico sesso, ma anche in un unico orientamento sessuale alla volta. Non c'è, insomma, quella piacevole e intrigante "confusione" che mi sarei aspettato di trovare in un ermafrodita. In giro per il web ho trovato pagine in cui si accusa addirittura Jennings di essere omofobo: affermazioni forse eccessive, ma l'impressione che l'autore non nutra molta simpatia per uomini che amano uomini e donne che amano donne è palpabile nelle pagine di Predatore (e un po' si percepiva anche in L'Azteco).
Eppure, nonostante tutto, Predatore non è un romanzo da buttare. La scrittura di Jennings sarà pure pesante e pedante, ricca di contenuti sessuali non richiesti e inutilmente disturbanti, piena di situazioni già viste negli altri suoi romanzi, traboccante di spiegoni e infodump non richiesti, ma il buon vecchio romanziere sa come attizzare la curiosità del lettore alla fine di quasi ogni capitolo e sotto-capitolo, ora con un cliffhanger, ora con un'inaspettata e nebulosa anticipazione di eventi futuri. Se un paragrafo si chiude con una frase del tipo "Io e X ci mettemmo in viaggio, ma ancora non sapevo che X avrebbe fatto una brutta fine..." oppure del tipo "Così io e Y ci lasciammo, senza sapere che anni dopo avremmo..." è naturale che io mi fiondi sulla pagina successiva, anche se sono ancora intossicato da centinaia e centinaia di righe di sesso perverso e di spiegazioni degne di un documentario più che di un romanzo. Jennings è bravo a farsi perdonare alimentando la fame di conoscenza del lettore, ed è anche un po' paraculo, ammettiamolo. Un po' tanto, a dire il vero.
Infine, Predatore è un romanzo che sa colpire al cuore. Non certo per una qualche immedesimazione in Thorn, che non suscita particolare simpatia, grazie alla sua caratterizzazione da perfetto Gary Stu/Mary Sue: è intelligentissimo, brillantissimo, fortunatissimo, prestantissimo, astutissimo, bellissimo, seduce chiunque, se la cava in ogni circostanza... no, non certo per Thorn. Jennings è tanto impacciato a delineare la figura del protagonista quanto è bravissimo a gestire le uscite di scena dei tanti personaggi maggiori e minori, principali e secondari, con cui Thorn interagisce. L'avevo già intuito nell'Azteco e Predatore me l'ha confermato: Jennings è il "poeta" delle morti dei personaggi, raramente ho trovato un autore così bravo a rendere potenti e coinvolgenti le uscite di scena, dalla più insignificante alla più truce e violenta. Soprattutto, raramente ho trovato un romanzo che mi facesse quasi piangere (quasi, eh, devo mantenere una parvenza di insensibilità!) per la morte di gente che tutto sommato nemmeno esiste.
Forse un po' poco per perdonare tutti i difetti del romanzo, ma mi piace cercare qualcosa di buono anche nel romanzo peggiore: e Predatore non lo è, per quanto non sia nemmeno un capolavoro.

mercoledì 30 giugno 2021

Otto miliardi di anni

Su quel globo desolato gli oceani erano evaporati e la vita si era ormai estinta. La stella attorno a cui il pianeta orbitava era divenuta una gigante rossa e da un momento all'altro avrebbe avuto il suo ultimo sussulto, espellendo nel cosmo gli strati gassosi esterni e dando vita a una sfavillante nebulosa.
L'androide XTH-1813 si sistemò meglio gli speciali occhiali da sole sugli occhi sintetici e si preparò allo spettacolo. Nulla al mondo gli avrebbe impedito di vedere la morte del Sole direttamente dalla prima fila.

mercoledì 16 giugno 2021

Effetti collaterali

 «Come procedono le ricerche? I nostri investitori vogliono sapere se vale la pena spendere milioni di dollari per ricavare il segreto dell'immortalità da una medusa.»
«Ehm... sembra che il DNA della Turritopsis nutricula* iniettato nelle cavie riesca a invertire il processo di invecchiamento e deperimento delle cellule, ma...»
«Ma...?»
«La pelle dei soggetti è diventata urticante come i tentacoli della medusa.»
«Beh, immagino che rinunciare a qualsiasi contatto fisico sia un prezzo minimo per l'immortalità.»

* Specie di idrozoo simile a una medusa, che ha la capacità, unica nel regno animale, di tornare allo stadio giovanile, risultando virtualmente immortale.

lunedì 7 giugno 2021

La perdita dell'immortalità

A quattro anni
o poco più
realizzai che non sarei
vissuto per sempre.
Giocavo a far lottare
i pupazzetti dei dinosauri
quando il pensiero
della finitudine
mi si conficcò nel cranio.
Sapere
che per miliardi di eoni
prima di allora
io non ero esistito
e che per altri miliardi
dopo di allora
non sarei più esistito
fu come un pestone
sul cuore.
Piansi
nel petto di mia madre
e non le confessai
che ero all’inizio
dei miei affanni.
Mentii.
«Mi manca papà»,
le dissi,
«quando torna dal lavoro?»
Invece mi mancava
l’immortalità dell’ignoranza.

sabato 5 giugno 2021

La condanna: parte 4

 Il centauro calvo giace riverso nel proprio sangue sull’asfalto. Dalla voragine aperta sul lato destro del cranio colano pezzi d’osso, meninge e materia cerebrale.
I suoi occhi spalancati mi ricordano quelli di Trisha, benché siano castani e non verdi. Incredibile come occhi di persone diverse, magari di colori diversi, si assomiglino tutti nella morte. Così come si assomigliano i loro cervelli, le loro ossa, la loro carne martoriata dalla mano dell’assassino.
Fracassargli la scatola cranica mi ha dato un piacere che non provavo da tanto, da… da quando ho ammazzato Trisha e Sharon, direi. Solo che stavolta si è aggiunto un ulteriore dettaglio perverso: ho ancora meno cose da perdere. Io sono un puro spirito, il corpo che manovro è di un altro. Se sarò arrestato, la condanna colpirà Ramirez, non me. Se sarò assalito dai compari dell’ucciso, morirà Ramirez, non io.
Nella via deserta risuona il plic! plic! del sangue che cola dal tubo che ancora stringo in mano, almeno finché non è sommerso dall’ennesimo urlo della puta che era in compagnia del thug boy ap-pena ammazzato. Se ha un grammo di cervello, sarà andata a chiamare rinforzi.
Not bad! Io resto qui, non vado da nessuna parte. Mandatemi contro tutti i tipi armati che volete! Risponderò loro per le rime, e quando avranno ridotto questo mio corpo a una poltiglia irriconoscibile andrò alla ricerca di un altro ospite da possedere.
Neo-Roma è piena di menti deboli. E io sto iniziando a scoprire come servirmene.

mercoledì 2 giugno 2021

Traffico

Imbottigliato nel traffico interplanetario, Alan picchiettava nervosamente le dita sul cruscotto.
Alla radio, una voce robotica segnalava possibili rallentamenti a causa di un'invasione marziana su Cerere.
Improvvisamente l’astronave davanti si mosse. Per un attimo Alan esultò dentro di sé, ma fu riportato alla triste realtà quando dovette frenare dopo un paio di metri.
A quel punto si accese una sigaretta, sperando che la scarica di nicotina placasse il suo nervosismo.
Era sempre così, sulla Saturno-Reggio Calabria.

sabato 29 maggio 2021

La condanna: parte 3

La signora Flora Ramirez è in piedi davanti all’hologlass.
Si sta spogliando, inconsapevole Susanna nel mirino di un invisibile peeping Tom.
Non è bella. Le natiche mostrano i crateri della cellulite. I seni già flosci terminano in due capezzoli troppo lunghi e stretti. La peluria tra le gambe è incolta e irregolare. Infine il viso sembra uno di quei mascheroni baluba con le guance scavate, gli zigomi sporgenti e i labbroni gonfi.
La signora e il signor Ramirez si sono trasferiti nel mio vecchio appartamento dopo la condanna. Hanno rimosso ogni traccia dei precedenti abitanti, come se io, Trisha e Sharon non fossimo mai esistiti. Posso vagare anche per ore da una all’altra senza trovare un solo oggetto familiare. In compenso ogni stanza è diventata un profluvio di arredamento kitsch messo insieme a caso, per far rivoltare ulteriormente nella tomba la mia poor poor wife, che aveva pure tanti difetti ma di sicuro non quello del senso estetico.
Il marito di Flora è già sdraiato sul letto, nudo, col grosso ventre rivolto in su. Sfoggia un’erezione che sembra sbeffeggiare la mia mancanza di un corpo fisico. Gli occhi sono spalancati e brillano di una sfumatura accesa dell’azzurro, segno che il sistema neurocell è impostato su qualche simulazione virtuale. Non devo fare alcun sforzo d’immaginazione per capire di quale natura.
«Amore»
Mi volto nella direzione della voce. Per un attimo l’immagine di Trisha si sovrappone a quella di Flora, poi i labbroni e gli zigomi troppo pronunciati prendono il sopravvento sul volto angelico della mia amata.
«Amore, indovina un po’ di cosa ho voglia» continua Flora.
La sua voce non ha niente di aggraziato o di sensuale, eppure mi provoca di nuovo un brivido d’eccitazione. Sarà l’astinenza.
L’uomo non ha la minima reazione, forse non l’ha nemmeno sentita. Flora alza le spalle, non sembra sorpresa. E le sue successive parole, mentre avanza verso il letto, me lo confermano: «Meglio così, caro».
Mi viene istintivo venirle incontro, protendere le braccia verso il suo corpo nudo. Se potessi stringerei quei seni cascanti tra le dita e fingerei che siano quelli di Trisha. Scenderei a baciarle quel pube selvaggio immaginando i pendii lisci e dolci di mia moglie.
Ma quando provo ad abbracciarla, stringo il vuoto. Mi volto e la trovo già sdraiata sul letto, intenta a dare il comando al proprio neurocell: «Activate simulation number twelve: pool threesome with two black cocks»
Osservo quei due esseri umani nello stesso giaciglio che si ignorano a vicenda e provo una sensazione di familiarità. Io e Trisha ce ne stavamo sdraiati l’uno accanto all’altra senza cercarci, senza nemmeno parlarci. Lasciavamo scorrere in mezzo al letto un muro invisibile eppure invalicabile. Ricordo che in dodici anni di matrimonio c’è stato un solo tentativo, da parte di lei, di chiedermi come fossero andate le cose a lavoro quel giorno; e io le avevo risposto con un sospiro e nulla di più.
Abbasso lo sguardo alla destra del letto. Il pavimento in resina è immacolato, eppure ricordo alla perfezione la grossa macchia di sangue scuro che si allargava dal corpo di Trisha. L’arma del delitto, una statuina di foggia maori regalata per il nostro matrimonio, mi era rotolata dalla mano finendole accanto a lei.
Perché l’avevo uccisa? Me lo sono chiesto molte volte, prima e dopo il processo, durante la prigionia, persino dopo il vanishing. E credo di aver saputo da sempre la risposta, ma solo adesso posso ammetterla senza remore: l’ho fatto perché mi andava. Perché a un certo punto, qualcosa dentro di me ha preso la parola e ha detto al mio cervello: “Quanto sarebbe bello ammazzare qualcuno. Così, per divertimento, perché non capita tutti i giorni.” E su chi poteva ricadere la scelta della vittima, se non su Trisha? Vedi un po’ che onore ti ho concesso, my dear wife!
Un tuono risuona fuori dalla finestra. Anche la sera dell’omicidio tuonava, e sull’uscio della camera Sharon piangeva. Se solo avesse trovato la forza per fuggire, forse non l’avrei uccisa. Sure, l’avrei lasciata scappare. E invece voltandomi me l’ero trovata di fronte, impietrita dal dolore.
«Tesoro, non piangere», le avevo detto con tutta la dolcezza che un padre può tirare fuori.
E con cattiveria altrettanto smisurata le avevo stretto le mani intorno al collo. Crack! In trentotto anni di vita non avevo mai provato una sensazione del genere. L’inebriante sensazione di avere il potere di dare la morte.
Torno a contemplare la coppia nel letto e la loro abulia, che poi è anche la mia e quella di Trisha, così come di centinaia, di migliaia, di milioni di esseri umani. Ho intravisto la porta da spalancare per rompere la stasi in cui noi uomini moderni siamo condannati e non la richiuderò tanto facilmente, nossir!
Dal giorno dell’incidente col vecchio junkie mi sono chiesto più volte come ho fatto a possederlo, prima che venisse accoltellato. E mi sono dato una risposta: in quel momento la sua mente era partita. Andata. Lost. Gone mad. Persa dietro tutte quelle fantasticherie di sogni olografici.
Mi chino sul nuovo padrone di casa mia. è ancora immerso nel suo sogno virtuale erotico, lo capisco dai lampi nei suoi occhi persi nel vuoto. Forse in questo momento la sua mente è debole tanto quanto quella del vecchio, forse anche di più. Be’, tentar non nuoce.


lunedì 24 maggio 2021

Māyā

Scarabocchiando versi d’amore
nell’ultima ora della sera,
quando la luna di cobalto
si fa velo con le nubi
peregrine,
mi sono chiesto
se tu, amore mio,
sia più vera del sogno diafano
che accarezzo ogni notte
oltre il muro delle palpebre
serrate, o se debba
annoverarti
nella medesima stirpe di larve
sgusciate dal nido
della mia fantasia.
Forse della tua essenza resta
solamente il ricordo stinto
in una foto di liceo
in un cantuccio della memoria,
o forse vedrò ancora
il tuo volto incorniciato
dalla chioma lussureggiante
della prossima nereide
che mi illuderò di amare,
trascinato nelle profondità
di un bisogno dell’anima
che non smetto di saziare.

sabato 22 maggio 2021

La condanna: parte 2

Piove su Neo-Roma. Per tutta la vita ho odiato la pioggia. Eppure, adesso che le gocce mi passano attraverso, mi scopro a rimpiangerla.
Visto dall’esterno, l’onirografo è un edificio come tanti altri. Se non fosse per l’insegna luminosa a lettere gialle e rosse, si perderebbe nell’anonimato edilizio della città.
Una holoboard all’ingresso indica i prezzi. Dieci euro per un holodream di bassa qualità, venticinque per due holodreams decenti, settanta per il pacchetto da cinque e se tiri fuori duecento euro puoi comprare un’intera holoventure. Per chi soffre di afantasia, la malattia con la più alta crescita di numero di casi nel XXII secolo, l’onirografo rappresenta l’unica fonte di immaginazione indotta artificialmente, ma sono sempre meno coloro che vi fanno ricorso.
A quest’ora della sera la via dell’onirografo è molto trafficata, ma sono pochi coloro che entrano o escono dall’edificio. Uno dei passanti, che forse capita raramente in quella parte della città, commenta: «Toh! E chi si aspettava di vedere questo posto in attività. C’è ancora chi viene a spendere qui i soldi?»
La maggior parte, però, nemmeno degna di uno sguardo l’edificio. Vedo scorrere decine di occhi vitrei, illuminati solo dal lampo bluastro degli impianti neurocell. Tutti parlano, ma i loro interlocutori sono lontani centinaia, migliaia, milioni di chilometri, dall’altra parte del gigaweb che ci connette tutti.
Un pensiero divertente mi attraversa la mente: se un selvaggio dei pochi ettari che restano dell’Amazzonia venisse trasportato nel cuore di Neo-Roma e vedesse ciò che vedo io, penserebbe di essere di fronte a una torma di matti che chiacchierano da soli.
Ma poi un altro pensiero mi raggiunge e rende amara quella constatazione: anche io facevo parte di quella massa. Anche io percorrevo le vie della città perso tra mail, notifiche, bacheche, pagine web che il neurocell mi apriva nella retina dell’occhio sinistro.
Una ragazzina che avrà non più di quindici anni mi passa accanto, e intanto commenta l’ultima puntata di uno scadente show pomeridiano: «Certo che Cecilio è un gran puttanx! Nell’ultimo episodio di Androgini & Androgine ha ammesso di essersi fattx Ana mentre corteggiava Mormo…»
Due innamorati mano nella mano non si guardano, impegnati a dare comandi ai neurocell. Lui: «Ordina su Desire un regalo per Lara. Qualcosa di low-cost ma non troppo, non voglio sembrare greedy. Accedi al suo profilo per…» Lei: «Metti un like al post della Gina, della Suva, della Mena e della… anzi no, alla Suva metti un hug. Quel cagnolino fa così tanta tenderness!»
Dall’altro lato della strada, il volto pingue di un deputato italo-giappo-russo occupa un giga-screen: «Prima di parlare di drop della criminalità, vorrei far notare che il vanishing è stato introdotto in Italia da appena venti mesi e i suoi effetti non possono essere rilevati nel giro di un paio…»
Due salarymen si incontrano per strada e si salutano. Quelli della loro razza li riconosci subito dalle uniformi monocromatiche, di un grigio triste che ricorda il cielo nuvoloso. Ma più dei loro abiti spenti, delle occhiaie violacee e della calvizie precoce indotta dal troppo lavoro, mi colpisce lo stralcio di conversazione che riesco a sentire:
«Hai sentito di Pasquale? Schiattato. Morto. Kaputt»
«E di cosa?»
«Karoshi, pare»
«Ci avrei giurato. Era uno fragile»
«Già, certi lavori non fanno per tutti»
«Non posso dire che mi dispiaccia. Insomma, chi lo conosceva?»
«A me non dispiace per niente. Adesso c’è un posto libero in contabilità»
«E speri che vada a te?»
«Be’, ho bisogno di un aumento. L’holoscreen 250 pollici non si paga da solo. A proposito, vuoi venire da me a vedere il campionato dei nani…»
La mia attenzione è attratta dall’ingresso dell’onirografo. La porta automatica si spalanca e un omone di due metri e mezzo, dall’aria brutale ma non troppo sveglia, spintona sul marciapiede un vecchio brizzolato. L’uomo è così gracile da non riuscire a mantenere l’equilibrio e rovina al suolo, tra le risate di pochi e l’indifferenza dei più.
«Ancora un po’! Vi prego!» piagnucola. «Non potete scollegarmi così»
«Vattene, fuckin’ moron!» tuona il gigante. «Non vogliamo nessun dream-junkie qui! Va’ a disintossicarti!»
«Ma io ho bisogno di quei sogni» frigna ancora il miserabile. «La mia afantasia sta peggiorando. Mi sta uccidendo. Senza gli holodreams…»
Un calcio ben assestato dell’omone lo fa guaire di dolore, ma non lo zittisce: «La prego, mi faccia rientrare. Ho i soldi per pagare, posso…»
«Il padrone non vuole i tuoi soldi sulla coscienza, schifoso junkie! Buzz off!»
Solleva il pugno con aria minacciosa e di fronte a quel gesto il vecchio arretra sconfitto. La porta si richiude, la calca di curiosi si disperde.
Il miserabile si tira su a fatica. Nessuno lo aiuta, of course. Alla gente è bastato sentire che l’altro lo apostrofava come un drogato di holodreams per decidere di non averci niente a che fare. Inutile essere ipocriti, anche io l’avrei fatto. Non viene mai niente di buono dall’aiutare un onirodipendente.
Però adesso non ho più un corpo né qualcosa da perdere, quindi posso almeno seguire l’uomo per la curiosità di vedere dove andrà a rintanarsi.
Fluttuo nell’aria finché non gli sono accanto e lo osservo meglio: dai vestiti non si direbbe un poveraccio, uno di quei junkies ridotti al lastrico dalla propria dipendenza. È un uomo distinto, forse un salaryman in pensione, e questo mi fa provare ancora più pena per la sua condizione.
Non ha con sé un ombrello, o se ce l’aveva l’ha lasciato nell’onirografo. I suoi abiti si fanno presto zuppi d’acqua, i suoi fremiti di freddo si fanno più frequenti, ma non lo sento lamentarsi. C’è qualcosa di ammirevole in quello stoicismo.
«Un sole rosso sorge su Marte. Palpiti di vita fluorescenti nell’abisso delle Marianne», mugugna lungo il tragitto. «Lo splendore della vita mesozoica. Infinite mangrovie nelle selve del Carbonifero» Devono essere gli holodreams che fa nell’onirografo. «Le nebulose di Orione. I raggi B balenano tra le Nubi di Magellano» Vedo una lacrima argentea scendergli da un occhio.
L’uomo prende via Celio Vibenna, poi svolta verso l’intrico condomini che occupa l’ex-parco del Colle Oppio. Non è la zona migliore per passeggiare la sera, e difatti inizio a domandarmi che intenzioni abbia. Sempre che ne abbia una, chiaro. I palazzoni figli dell’edilizia sfrenata nascondono il cielo dietro le loro cime, rabbuiando quelle viuzze nonostante l’illuminazione artificiale.
«Ehi, vecchio!»
La voce poco amichevole di un uomo dal fisico possente rompe il silenzio, ma il vecchio continua a camminare e a biascicare frammenti di visioni oniriche, mentre gli occhi spenti vagano nel nulla.
«Parlo con te!»
Una mano appesantita da cinque pacchianissimi anelli si stringe attorno al colletto del vecchio. Calvo e con tutto quel metallo addosso, tra borchie e paramenti, il suo aggressore dev’essere il centauro di una qualche banda di teppisti. Un drago tribale gli decora la parte destra del volto.
«Dammi tutto quello che hai, vecchio! Tutti i soldi, forza!» è la minaccia che tuona subito dopo.
Mi viene spontaneo lanciarmi verso i due, come se potessi ancora intervenire fisicamente e salvare l’uomo dell’onirografo dall’aggressione. Un ultimo e vano gesto da good samaritan, diciamo così.
Per un istante, il «No!» del vecchio mi esplode nella testa.
Mi aspetterei di attraversare il suo corpo e ritrovarmi dall’altra parte, e invece un attimo dopo ho lo sguardo del thug boy inchiodato nel mio, le sue dita grassocce e forti che mi stringono la gola. Istintivamente serro il pugno destro e sferro un colpo al suo viso, il più forte possibile. L’omone emette un rantolo bestiale e mi lascia andare
Indietreggio di un paio di passi e guardo le mie mani. Sono le stesse del vecchio. E così le gambe più sotto, i piedi nelle scarpe di synthleath. Piego le dita e mi inebrio della sensazione di avere di nuovo un corpo fisico. Non so come, ma sto possedendo il vecchio.
Alzo lo sguardo al cielo e lancio un urlo euforico.
Ma la gioia ha vita breve e un dolore lancinante al ventre mi riporta alla realtà. Abbasso lo sguardo. Il manico di un coltellaccio, stretto nella mano del centauro calvo, sporge da una ferita sanguinante. Prima che possa provare a ritrarmi, l’uomo lo fa scattare verso destra e mi dilania ulteriormente le carni.
Faccio forza sulle gambe per rimanere in piedi, ma le ginocchia cedono all’ennesima scossa di dolore e crollo sull’asfalto.
«L’hai voluto tu, asshole!» tuona ancora una volta il teppista, prima di chinarsi su di me e frugarmi nelle tasche.
O meglio, fruga nelle tasche del vecchio, e quando trova la money-card si dilegua di corsa nella stessa direzione da cui è sbucato. Sì, fuggi, maledetto! Fuggi dopo aver commesso indisturbato il tuo evitabilissimo delitto.
Sento la vita dell’uomo scivolare via dal suo corpo martoriato e malandato. Morirò anch’io? Non è questa la domanda che mi preme di più. Piuttosto, mi chiedo: è per questo che fanno svanire i condannati? Sono questi i risultati a cui aspirano il deputato Curoscivo e il dottor Genelme, e le centinaia di deputati favorevoli al vanishing, e le migliaia di docs solerti a infliggerlo?
«Drop della criminalità un beato cazzo!», sibilo a denti stretti, prima di separarmi dal corpo del moribondo e lasciarlo al suo destino. 

mercoledì 19 maggio 2021

Carambola cosmica

La luna ghiacciata sfrecciò a tutta velocità nello spazio siderale, schiantandosi alla fine della lunga corsa nell'atmosfera vorticosa di un gigante gassoso.
Un asteroide impattò con la superficie di un pianeta roccioso abitato da 15 miliardi di anime, estinguendone i quattro quinti.
Due buchi neri vorticarono l'uno contro l'altro, fondendosi e generando uno tsunami di onde gravitazionali.
La noia era sempre dietro l'angolo, ma gli Immortali sapevano come combatterla con poco.

sabato 15 maggio 2021

La condanna: parte 1

La sala è illuminato a giorno, così tanto che la luce quasi mi ferisce.
La sedia che occupo è la mia prigione. Cinghie di synthleath mi bloccano i polsi e le caviglie su quel trono maledetto. In nome della decenza mi hanno concesso almeno un paio di mutandoni neri, ma per il resto sono nudo.
L’uomo di fronte a me è il mio carnefice. Indossa la divisa dei pris-doc ed è giovane, non avrà più di trent’anni. Eppure nel suo sguardo non vedo traccia di vita. E’ come se avesse due biglie traslucide nei bulbi oculari. Deve aver inflitto lo svanimento a così tanti condannati da essere diventato una sorta di tristo mietitore in uniforme.
Sul lato destro del petto c'è un tesserino: DR. GUSTAF GENELME.
«Convict PO-0949-2364»
Alfredo. Il mio nome è Alfredo. Non sono una stringa di lettere e numeri a caso.
«Lei è stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di Trisha Ricciardi e di Sharon Todisco»
Abbasso le palpebre. I loro volti mi fissano sorridenti, come se non fosse successo nulla. Il collo della mia darling è ancora intatto, né i capelli di mia moglie sono imbrattati di sangue e di cervella. Chissà se hanno avuto la forza di perdonarmi, nell’istante in cui spezzavo le loro vite.
«Il suo caso mi ha sorpreso molto» continua il dottore. «Insomma, lei è un lett-prof, non il genere di persona da cui ci si aspetta un omicidio così brutal» Lo sento sospirare. «Perché ha scelto di non avvalersi di un avvocato difensore?»
Da parte mia, silenzio.
«Perché non si è nemmeno difeso da solo?» è l’inevitabile domanda successiva.
Di nuovo, silenzio.
«Oh well, sapeva a cosa andava incontro» conclude il mio interlocutore. «Le hanno già disattivato l’impianto neurocell nell’encefalo, quindi… let’s go con la condanna!»
Apro gli occhi.
Due cam-drones dalla forma sferica mi fluttuano attorno.
«Immagino sappia in cosa consiste il vanishing», continua il boia, mentre si china su di me per sistemarmi il laccio emostatico. «Ogni particella del suo corpo perderà la propria massa e si ridurrà a una semplice radiazione. Resterà cosciente, ma sarà intangibile. Ovviamente non posso escludere che prima o poi il debole legame che unisce le sue particelle si sfaldi. Però sappia che la sua condanna sarà un ottimo esempio. Nulla scoraggia il crimine meglio del timore di una punizione atroce. Da qui a dieci anni vedranno in questa forma di esecuzione una conquista del progresso»
Con lo sguardo seguo i movimenti delle sue dita, il picchiettio sul vetro della siringa per favorire la salita delle bollicine, poi la punta metallica che penetra nella carne. Lo stantuffo avanza e il liquido blu si sposta dalla siringa al mio corpo. È freddo.
Un secondo. Due. Tre. Nessuna reazione.
Dieci secondi. Uno sgradevole formicolio si dipana dalla zona della puntura giù lungo l’avambraccio, e su fino alla spalla.
Venti secondi. Il formicolio ha raggiunto le dita. Il braccio è scosso da uno spasmo improvviso. I tendini e le vene premono sotto la pelle leggermente sudata.
Trenta secondi. Il gelo della soluzione che mi hanno iniettato si sta tramutando in calore.
Quaranta secondi. Stavolta caccio fuori un urlo seguito dall’imprecazione più blasphy che mi suggerisca l’istinto. Il braccio arde dall’interno, eppure ho l’impressione che la pelle si stia facendo più pallida. Il reticolo delle vene bluastre si fa sempre più evidente.
Sessanta secondi. Il mio braccio sembra fatto di vetro, adesso, e così i muscoli, le ossa, le cartilagini. Là dove dovrebbe esserci un intero arto vedo solo un intrico di filamenti scuri che mi fanno tornare alla mente certi video didattici della scuola sul sistema circolatorio.
«I vasi sanguigni sono gli ultimi a sparire», mi dice il dottore. «Insieme agli organi interni. Guardi, se non ci crede.»
Solo allora provo il desiderio di vedere cosa sta succedendo al resto del mio corpo. Guardo il mio ventre: anche lì pelle e muscoli trasparenti, ma sotto il labirinto di capillari pulsa il groviglio rivoltante degli intestini. Le mie viscere! In bella mostra per il pubblico ludibrio! Soffoco a stento un conato di vomito.
D’istinto provo ad aggrapparmi ai braccioli, ma ormai non ho più consistenza e mi sento sprofondare nella materia di cui è fatta la sedia. Come se di colpo mi trovassi seduto sopra le sabbie mobili.
Il volto del dottor Genelme va sempre più up e io sempre più down. Quando gli occhi arrivano all’altezza del sedile provo persino a urlare, ma dalla mia bocca non esce alcun suono. E se anche uscisse, cosa potrebbero fare per aiutarmi?
Per qualche istante si fa tutto buio. La luce rispunta quando la mia testa è ormai al di sotto della sedia e l’ultima cosa che sento è il commento di Genelme: «Ormai è svanito. Bene, next one!»
Adesso sto sprofondando nel pavimento. La discesa è più rapida, forse perché le mie molecole hanno ancora meno massa a fare da ostacolo. E quando l’avranno persa tutta, what happens? Continuerò a scendere more ‘n’ more down, fino al centro della Terra e ancora oltre? O cesserò di essere cosciente prima che ciò accada, disgregato dalle forze fisiche? Forse sarebbe una benedizione, se l’esistenza che mi attende è quella di uno spettro incorporeo che guarda gli altri vivere.
And yet un’altra considerazione attraversa la mia mente: sto per sperimentare una condizione ignota agli uomini, a parte quei pochi sfortunati condannati come me al vanishing. Cosa potrei vedere? Cosa potrei scoprire? Quali possibilità mi aprirebbe trascendere la natura umana?
Con questo pensiero fisso nella mente mi protendo verso l’alto. Il dolore è ormai svanito e il mio corpo, per quanto privo di massa, continua a rispondermi come ha sempre fatto.

mercoledì 5 maggio 2021

Metempsicosi.exe

Universo:\Iperuranio\ControlloReincarnazioni
«Il soggetto n. 85194821042, Mario Rossi, è appena deceduto.»
«Cause?»
«Error 230. Cancro allo stomaco.»
«Recuperate il file MarioRossi.soul, rinominatelo AadhyaKumar.soul e spostatelo nel soggetto n. 851969025319. Passiamo al prossimo.» 

lunedì 26 aprile 2021

Pioggia

Risuonano
i liquidi tonfi
sui sonni appena disfatti
dal trillare del tempo
inesorabile
che un'onirica Penelope all'imbrunire
ritesserà.

sabato 24 aprile 2021

La madre del prescelto

Uno… due… tre… quattro… cinque… sei… sette…
Acquattata tra le fronde, Mirele aveva contato una mezza dozzina di goblin e un ufficiale umano accampati sulla riva del fiume. Gli ometti dalla pelle verdastra indossavano armature su misura di cuoio bollito e impugnavano daghe di eccelso acciaio tibaresco, che di sicuro non potevano essersi procurati da soli. L’uomo, invece, doveva essere un phaleriano, a giudicare dai capelli corvini e dall’armatura lamellare tipica dell’esercito di quell’impero. Aveva non più di trent’anni e una corta peluria sul volto, ben curata. Un sottile diadema di oro bianco gli cingeva le tempie, e al suo centro splendeva uno zaffiro di Nelumbo blu come il cuore del mare: quindi era anche uno stregone azzurro dell’accademia di Padmaranga.
Questo complicava non poco le cose. Mirele sapeva che l’ombra del Presidente Zagan si allungava ogni giorno di più anche sulla Selva Verturia, ma non si aspettava che fosse penetrata così in fretta in quei territori. Al massimo aveva temuto di incrociare qualche gruppo di cacciatori selvaggi, con i quali non avrebbe faticato ad avere la meglio: i goblin erano così poco avvezzi alla presenza umana che sarebbe bastato far rumore e recitare un banale incantesimo Ignis Minor per metterli in fuga, fossero anche una ventina. Ma con dei goblin già arruolati, armati e guidati da un mago azzurro phaleriano era tutto diverso, perché si sarebbero battuti sul serio, volenti o nolenti, costretti dal controllo mentale che lo stregone poteva esercitare.
In circostanze normali, avrebbe fatto dietrofront e cercato un’altra via. Di certo non poteva sbucare fuori dalle fratte e proporre di lasciar passare una che era ricercata nientemeno che dal Presidente Zagan in persona! Una risoluzione pacifica era fuori discussione.
Purtroppo quello era l’unico guado che era riuscita a individuare sul Watter nel raggio di miglia e miglia, dopo due giorni di estenuante peregrinare nella foresta, sempre all’erta, dormendo poco e niente.
«Cosa devo fare?» si domandò, tra sé e sé.
Poteva ritirarsi e cercare un altro guado più a sud, ma era un azzardo. La porzione meridionale della Selva Verturia era un’incognita: pochi esploratori avevano osato mettervi piede, non esistevano mappe anche solo vaghe e si raccontava di orrori indicibili, viverne umanoidi che vomitavano acido, mostri di carne putrida alti quindici o anche venti cubiti, scimmioni antropofagi.
Oppure poteva combattere, anche se questa seconda opzione non la attirava. Non era una sanguinaria. Non aveva imparato la magia per bruciare vivi altri esseri viventi. I goblin non avevano alcuna colpa se un tiranno li aveva costretti a servirlo. E nemmeno il giovane mago azzurro era da biasimare: obbediva agli ordini del suo sovrano, probabilmente non sapeva nulla dei motivi per cui una ragazza di nemmeno vent’anni era ritenuta così pericolosa per l’intera nazione di Phalerion.
A quel punto, sentì scalciare dentro di sé. Portò la mano destra sul proprio ventre e abbozzò un sorriso, nonostante la situazione tutt’altro che rosea. Non era giusto sopprimere delle vite per passate il guado, ma non lo sarebbe stato nemmeno negare a quella che si stava formando dentro di lei la possibilità di venire al mondo. Tanto più se dal suo destino dipendeva quello di migliaia, milioni di uomini e di donne presenti e futuri.
In una frazione di secondo, la mente di Mirele risalì il fiume del tempo, ripercorrendo le tappe del viaggio che l’aveva condotta fin lì.

Ricordava vagamente la grande villa nella campagna di Tarquanda in cui aveva vissuto i primi sette anni di vita, circondata da persone alte e senza volti, senza nomi: glieli avevano rimossi dalla mente quando l’avevano portata all’accademia di Pandora, ancora bambina, per recidere ogni suo contatto col mondo esterno e aiutarla a diventare una maga votata solo allo studio e alla magia. Eppure poteva capitare che qualcosa fosse risparmiato dal trattamento e così era successo a lei, solo che quelle poche memorie superstiti dell’infanzia emergevano dal suo inconscio frammentarie e consunte.

Ricordava con molta più precisione le lezioni di magia teorica e applicata, le interminabili conferenze dell’Archimandrita Velesion, le prove d’esame nelle catacombe sotto Pandora per recuperare qualche paccottiglia nascosta lì dai maestri e spacciata per chissà quale manufatto antico, le ore notturne trascorse a studiare in extremis in vista di un tostissimo esame di Piromanzia di livello IV o di Divinazione avanzata.
All’epoca si era ritrovata spesso a odiare quella routine, a sperare di crescere presto e abbandonare Pandora per mettersi al servizio di qualche re o di qualche ordine di stregoni. Se avesse saputo cosa l’attendeva, forse non sarebbe stata così ansiosa di crescere.

Ricordò il primo bacio dato a Ricasol, due classi più avanti di lei, all’ombra del fico che troneggiava solitario nel cortile ovest e a tutte le fantasticherie successive sulla loro vita insieme. Ricasol era un ragazzo alto e robusto, con uno sguardo innatamente torvo ma dal cuore d’oro, sensibile. Si dilettava scrivendo versi e sarebbe stato un grande poeta, se la mano ossuta della Morte non si fosse posata troppo presto sulla sua spalla.

Ricordò il giorno in cui era giunta la notizia che le armate di Zagan, neo-eletto Presidente di Phalerion, erano in marcia verso Pandora.
Hithertho, la sua migliore amica dell’epoca, le aveva raccontato subito tutto quello che sapeva su quell’uomo:
«Dicono sia così abietto che l’hanno cacciato persino dall’accademia di negromanti di Carcossa. E per fare una cosa del genere quei necrofili…»
«Ha usato i suoi poteri per manovrare gli oligarchi di Phalerion e dopo che l’hanno eletto Presidente li ha sterminati tutti. È un tiranno, non di nome ma almeno di fatto.»

«Vuole sterminare o assoggettare tutti i maghi del mondo, finché alla fine sarà il solo a controllare la magia. È per questo che sta venendo qui. Ma i maestri e l’Archimandrita sono troppo saggi per mettersi a opporre resistenza, non credi?»
«Sai che odia gli Yevaniti? Sarà per i loro capelli rossi, sarà perché cianciano sempre di quel loro dio Oannis. Ha già iniziato a chiuderli nei ghetti… ma qualcuno dice che li manda nelle Latomie di Ossidiana. Poveracci, lì si muore come mosche!»
Quell’ultima cosa aveva fatto rabbrividire Mirele, perché anche lei era una Yevanita dalla chioma rubiconda e temeva ciò che le sarebbe successo. Però subito Hithertho l’aveva rassicurata: «Sei una maga, se anche ti mettesse le mani addosso non sprecherebbe un’utilizzatrice di magia. Si farà andare bene i tuoi capelli, fidati!»

Ricordò l’evacuazione di Pandora, la fuga nelle gallerie che si dipanavano sotto l’accademia per miglia e miglia, dapprima ordinata, poi resa caotica quando le prime belve dell’abisso avevano attaccato e le file di studenti si erano disperse senza che gli insegnanti potessero fare qualcosa per tenerle sotto controllo.
Per mesi Mirele aveva vagato in quelle caverne, prima di ritrovare il volto amico del maestro Gorgedo che l’aveva riportata alla civiltà, e intanto aveva patito il freddo, la fame, la sete, i morsi degli insetti, ma soprattutto la paura. Paura di morire all’improvviso in quell’oscurità dimenticata dagli Dei, paura di essere catturata e torturata da Zagan l’uccisione di Yevaniti, paura di perdersi nelle viscere della terra e non rivedere mai più la luce del Sole.

Ricordò, e come avrebbe potuto dimenticarlo, il giorno in cui le rivelarono la profezia. Si trovava a Najufa, la città delle sabbie dove i maghi di Pandora si erano riuniti per organizzare la resistenza contro Zagan.
Il nuovo Archimandrita, Myrorod, l’aveva convocata in quello che era momentaneamente il suo ufficio: una sala ampia, piena di pergamene salvate per miracolo dal sacco di Pandora, con le finestre che si affacciavano sulla grande via di Najufa percorsa a ogni ora dai dromedari e dai carovanieri. Era stato brusco e diretto nella rivelazione, l’aveva affondata nel cuore della giovane rossa come un sicario senza la minima pietà.
«Tu partorirai il Prescelto, come dice la profezia di Amnon. Ti unirai al principe Elha Gibbor, l’ultimo della stirpe di Emet, e porterai in grembo colui che sconfiggerà Zagan. Una volta che l’avrai partorito, saremo noi ad addestrarlo così come abbiamo addestrato te, solo che grazie al sangue che scorrerà nelle sue vene sarà più potente di qualsiasi mago. Più potente anche di Zagan. Così ha detto Amnon:
Dalla terra delle vigne verrà
una vergine dalla chioma di fuoco
e il marchio di Inanna sul corpo,
e dalla stirpe di Emet
un giovane virgulto, forte e in salute,
e dal suo seme…»

Le ginocchia di Mirele non avevano retto fino alla fine della profezia.
Volevano costringerla a fare una cosa del genere solo perché un vecchio pazzo aveva biascicato una profezia in un momento di delirio? E poi come facevano a dire che la donna in questione era lei? Era la sola ragazza coi capelli rossi originaria di Tarquanda con un neo dalla particolare forma nota come “marchio di Inanna”?
Mirele desiderava quando chiunque altro la morte di Zagan, ma doveva compiere un sacrificio del genere? Non c’erano altri modi per batterlo? Quella congrega di stregoni secolari e potentissimi non potevano unire le forze contro il tiranno? A cosa serviva studiare per decenni se poi ti ritrovavi ad essere un vecchio Archimandrita incartapecorito che scarica tutta la responsabilità sulle spalle di una giovane donna?
Doveva davvero concedersi a uno sconosciuto, farsi ingravidare come una giumenta da uno stallone? E poi doveva vedersi strappato dalle braccia il neonato appena partorito? Quale cuore di pietra poteva anche solo concepire un’idea del genere?
E Myrorod gliel’aveva detto in quel modo, senza minimamente prepararla, senza indorare la pillola!
Oh no, lei si sarebbe ribellata! Doveva dire no e protestare! Si sarebbe appellata al maestro Gorgedo, lui sì che avrebbe preso le sue difese! Non avrebbe mai portato in grembo un figlio perché costretta da altri, foss’anche per la salvezza del mondo!

Ricordò anche il giorno in cui conobbe il principe Elha. Per incontrarlo si erano spostati a nord, a Flos, la città tra gli alberi. Per tre mesi i maghi si erano assicurati che Mirele fosse tenuta sotto controllo, che non uscisse mai dalla sua stanza né che tentasse la fuga. Quella prigionia forzata l’aveva infine fatta cedere, l’aveva rassegnata al proprio destino.
Ma fu in qualche modo di conforto scoprire che anche il principe si sentiva così. Le era bastato un semplice sguardo per riconoscere nei suoi occhi la stessa sottomissione a un destino scelto da altri, la stessa angoscia di dover generare un figlio solo perché fosse di altri. Probabilmente non avrebbe mai potuto amarlo, ma almeno non l’avrebbe odiato, non per quello che li stavano costringendo a fare…

Ricordò di essersi resa conto, a un certo punto, di amare quel principe triste quanto lei, se non di più. O comunque di provare qualcosa che avrebbe definito “amore”, perché non aveva chissà quale esperienza al riguardo. L’unico altro ragazzo nella sua vita era stato Ricasol, ma lui era poco più che una cottarella. Elha, invece, l’aveva fatta sua e se per qualche secondo faceva finta che non fosse successo per imposizione dei maghi le sembrava di vivere una vera e propria favola.

Ricordò tutta la portata del dolore che l’aveva travolta vedendolo morire davanti ai propri occhi. Zagan era piombato su Flos come un martello sull’incudine, travolgendo tutto e tutti, portandosi dietro un’armata di saccheggiatori, stupratori, distruttori.
Sarebbe morta anche lei, se Gorgedo non l’avesse spinta a forza su uno degli ultimi grifoni rimasti e non fosse rimasto a tener testa al negromante, per pochi secondi, prima di soccombere, mentre la bestia chimerica e la sua preziosa passeggera volavano via.
Un dardo fiammeggiante aveva colpito il volatile a un’ala, ma fortunatamente il grifone era già così in alto che la sua caduta l’aveva portato ben oltre le mura di Flos, sul limitare della Selva Verturia. E lì Mirele, dopo essersi voltata un’ultima volta verso la città tra gli alberi che bruciava, aveva iniziato il suo viaggio solitario. Destinazione: Yetzirah, la città dei savi.

Non poteva indugiare ancora a lungo, doveva prendere una decisione. Presto la notte sarebbe calata e le rupi dall’altra parte del fiume sembravano un ottimo posto per fermarsi a riposare, almeno un paio d’ore.
Mirele cacciò via dalla mente qualsiasi dubbio, qualsiasi scrupolo morale, qualsiasi briciolo di pietà verso l’altrui vita che le fosse rimasto. Si trattava di sopravvivenza, pura e semplice sopravvivenza. Ma non era un’egoista, no, perché sopravvivendo lei sarebbe sopravvissuto anche suo figlio, e un giorno avrebbe sconfitto Zagan e liberato le Terre Verdi dalla sua tirannia.
Le sue labbra si mossero automaticamente e recitò nell’antica lingua enochiana la formula magica Mors ex Igne. Era una formula lunga e complessa, ma lei non poteva sbagliare. La ripeté così come le era stata insegnata, chiudendo gli occhi e concentrandosi su ogni singolo suono, bisbigliando le sillabe a voce abbastanza bassa per non essere udita dai goblin e dall’ufficiale phaleriano ma anche scandendole per bene.
Un lampo di fuoco esplose nella riva del fiume. Il turbine incendiario si elevò per una decina di metri, una furia inaudita che all’istante bruciò carne e cuoio, sciolse ferro e oro, senza che un grido si levasse dalle gole delle povere vittime colte alla sprovvista. Mirele poteva sentire il calore della fiamma su di sé anche se era abbastanza lontana da essere al sicuro, e quando esse svanirono nell’aria, un orrendo puzzo di carne e viscere bruciate e di ceneri si levò. Fu troppo: si piegò in avanti e vomitò il misero pasto di qualche ora prima, un paio di frutti e di radici.
Quando riuscì finalmente a volgere lo sguardo nel punto dove erano accampati quei sette disgraziati, la prima cosa che notò fu lo sfavillio dello zaffiro di Nelumbo, miracolosamente sopravvissuto all’olocausto.

Meno di un’ora dopo, la giovane donna dai capelli rossi era sdraiata su un giaciglio fatto alla bell’e meglio con le fronde. Osservava il vasto cielo stellato sopra di sé, mentre i ricordi delle notti trascorse all’aria aperta con Hithertho, giocando a indovinare questa o quella costellazione, si accavallavano e si rincorrevano nella sua mente.
Il piccolo dentro di lei scalciò ancora. Si accarezzò il ventre, sorridendo. Sarebbe arrivata sana e salva a Yetzirah e da lì si sarebbe spostata ancora più a est, ancora e ancora, lontano dalle armate di Zagan. Avrebbe trovato un buon posto dove far nascere e allevare suo figlio. Poi si sarebbe assicurata che venisse addestrato a dovere, per padroneggiare la magia e diventare ciò che era destinato ad essere. Ma intanto l’avrebbe allevato lei, gli avrebbe dato l’amore che suo padre le aveva potuto donare per pochissimo tempo.
Le insidie della Selva Verturia erano molte, ma lei le avrebbe superate così come aveva superato tutte quelle passate. Non l’avevano uccisa gli orrori striscianti nelle grotte sotto Pandora, né Zagan e i suoi soldati piombati su Flos, e nemmeno i goblin appena bruciati.
Sarebbe sopravvissuta, e con lei suo figlio. Perché lei non era una donna qualsiasi. Lei era la madre del prescelto.

mercoledì 21 aprile 2021

I mari di Heridanos V

 Il capitano e il mozzo contemplavano dalla tolda della sabbionave l'immenso deserto che da decenni copriva interamente il quinto pianeta del sistema di Heridanos.
«E' sempre stato così?» domandò il giovane.
Il vecchio scosse il capo: «Ricordo perfettamente i vecchi tempi, quando gli oceani di questo pianeta non erano fatti di sabbia ma di acqua e non erano popolati da orridi rettili ma da pesci multicolori e placidi leviatani.»
«E che fine hanno fatto quei mari?»
Una sola parola uscì dalle labbra del capitano: «L'uomo...»

lunedì 12 aprile 2021

Tarentum

Non è bella la vita
dei pronipoti di Sparta
tra le stimmate della diossina
e le polveri sottili
e i miraggi di chi promette calende greche.

Eppure
non si muore solamente
all’ombra dei serpenti di fumo
che sgusciano dalle torri.

Fa capolino dall’orizzonte
un Sole-Giano bifronte
portatore di speranze
e di dolori.
I suoi raggi
come pennelli
dipingono d’argento
la tela blu dei due mari
e indorano i torrioni
del vecchio castello
e lo scheletro di ferro
del ponte.

S’agitano le palme
come immense mani verdi
che sperano di essere viste
da un Dio, se mai v’è lassù.
Nel piazzale
sotto lo sguardo arcigno
di un filosofo di pietra
giocano bimbi ignari,
che non sanno di essere
astragali gettati da un bimbo
chiamato Caso
sotto un cielo di carne palpitante,
mentre le cure di un museo
custodiscono
i fasti della Magna Grecia.

mercoledì 7 aprile 2021

Il leviatano

L'imponente leviatano spaziale aveva percorso centinaia di anni luce per potersi riprodurre.
Aveva assistito alla nascita e alla morte di miriadi di stelle.
Aveva ammirato le infinite tinte delle grandi nebulose.
Era sopravvissuto per miracolo alle forze di marea di uno spaventoso buco nero.
Infine, aveva captato un richiamo elettromagnetico che vagava nel vuoto. La lunga ricerca era finita. Presto avrebbe incontrato una compagna.
Purtroppo non ne ebbe l'opportunità. Prima di arrivare a destinazione incontrò la spaziale baleniera USS Ahab.

sabato 3 aprile 2021

La moglie dell'onorevole Scipioni

L’onorevole Scipioni è un piano e tre stanze più in là, inchiodato dall’ultimo ictus a una carrozzella.
La moglie dell’onorevole Scipioni, invece, è sdraiata sul tavolo da pranzo, sovrastata da un Ercole africano al cui confronto lei appare così piccolina. Con le unghie smaltate di rosso si abbarbica alle spalle del gigante d’ebano. Le gambe magre inguainate nei collant stringono la vita dell’uomo, che stantuffa come un mastice nella fucina di un fabbro. Nella foga ferina dell’amplesso, la costosa décolléte destra della donna è volata sul pavimento. Le natiche sode dell’africano, lasciate completamente scoperte dai pantaloni calati fino alle caviglie, vibrano a ogni affondo.
Le labbra di corallo della signora Scipioni tremano per gli spasmi del piacere, poi pronunciano: «Oh sì, Okonkwo, sì sì! Okonkwo!»
Se la gode Okonkwo, pensando a tutte le volte che l’onorevole senatore-di-sto-cazzo nel partito-xenofobo-di-sto-cazzo l’ha umiliato. A tutte le volte che l’ha guardato dall’alto in basso, come se dargli un lavoro come tuttofare nella propria villa lo avesse reso il Padreterno. A tutte le volte che non si è fatto problemi a chiamarlo “negro”. Beh, indovina un po’, adesso quel “negro” come lo chiami tu si sta facendo tua moglie!
Okonkwo possiede la donna con vigore animalesco. Chi li vedesse in quel momento penserebbe che la donna sia lì lì per rompersi, per spezzarsi, per essere tagliata in due come la banchina polare sotto la prua di una rompighiaccio. È lei che lo incita a prenderla così, la brava e cara signora Erica, apparentemente tutta casa e chiesa ma sotto sotto sordida come la meretrice di Babilonia, oscena nella sua ipocrisia borghese. Lo incita ripetendo: «Vai, Okonkwo, vai! Sei il mio mandingo!»
Sarebbe tentato di dirle che i Mandinghi sono un gruppo etnico ben preciso, che lui è nigeriano e che usare il loro nome per indicare genericamente gli africani in riferimento a certe loro prestanze fisiche è offensivo, ma si trattiene. Perché dovrebbe concederle l’onore di rischiarare la sua ignoranza da donna del Primo Mondo?
Certo, gli fa rabbia che il mondo giri in quel modo. Che lui, laureato in ingegneria e costretto a fuggire dalla terra natale per le guerre, debba fare da servo a gente come la signora Erica e il marito, che nella vita non hanno fatto niente e possiede tutto. Ma forse l’ictus dell’onorevole Scipioni è una vendetta divina, già, e potersi fare la moglie è un ulteriore bonus. O se non esiste Dio, è il karma che gira. O forse semplicemente culo. E a proposito di culo, forse la signora Scipioni si merita una ripassata anche lì dietro, come ulteriore riparazione per i crimini del colonialismo. Tu uomo bianco depauperi un continente e tracci confini a cazzo per alimentare guerre civili per i prossimi cent’anni, e io ti inchiappetto la donna: uno scambio equo, no?
A quel pensiero Okonkwo si eccita e aumenta il ritmo dell’amplesso. Il tavolo traballa, cigola, sembra sul punto di rompersi ma continua a reggere, mentre un intero continente sfruttato e schiavizzato si prende la sua rivincita facendo cornuto lo schiavista e lo sfruttatore.

lunedì 29 marzo 2021

Panta rhei

Definizione di uomo.
Scorrere come
isole nella corrente
nell’alveo del tempo
sradicati dalle fondamenta dell’essere. 
Chiedersi se sia
più vero
il sogno nel plenilunio di mezzanotte
o il futile litigio dell’altro ieri
o la fantasia erotica che ti solletica
la ninfa rossa alla fermata del bus
o l’attesa della caduta
o la speranza dicembrina di un anno migliore
infranta dai successivi dodici mesi
e chiedersi ancora il punto esatto
dove il ricordo sfuma
nella fantasia
la memoria si fa finzione.

mercoledì 24 marzo 2021

AAA Vendesi

Sua Altezza Imperiale Su'Gajip, signore di mille miliardi di mondi, sfogliava con aria annoiata le olo-pagine degli annunci di pianeti in vendita, alla ricerca di un posto dove conservare la sua ormai ingombrante collezione di armi di distruzione di massa d'epoca.
Ci mise un bel po', ma alla fine trovò l'annuncio che stava cercando:
"Vendesi pianeta roccioso di classe II, terzo del sistema stellare 23397719, 71% acqua e 29% terre emerse. Unico difetto: una diffusa ma facilmente eliminabile infestazione di ominidi bipedi."

lunedì 15 marzo 2021

Deuteranopia

«Qui una volta era tutta
campagna…»
Frase fatta e finita
ma nelle pieghe della banalità
non si celano forse
le verità
più profonde?

Immaginiamo insieme,
tu e io,
sotto questi dorsi d’asfalto
e questi simulacri di edilizia moderna
l’erba che fu,
la pianura infinita a perdita
 d’occhio che sfuma
nell’orizzonte sanguigno
tra i ragli dei ciuchi
e i muggiti di pleistocenici pachidermi,
l’emozione del primo umano
che pose i calcagni
dove ora svetta il semaforo guasto,
e prima ancora
la distesa di sale
dove si dibattevano nella vana
corsa alla vita
banchi di ammoniti,
plesiosauri, ittiosauri,
grotteschi selaci lovecraftiani,
tutti parimenti perdenti
nel gioco insensibile dell’evoluzione.

Risalendo il gran fiume del tempo
forse disseteremo
l’atavica siccità che arde
i nostri petti
come il sole d’agosto
brucia i campisanti degli ulivi.

sabato 13 marzo 2021

La prospettiva di Gaia

Esisto. Qui, nello spazio e nel tempo.
Penso.
Ho coscienza di me. So di esistere.
Anzi, esisto perché so di esistere. Da tempo immemore.
Ma per quanto ancora?
I miei primi pensieri sono stati confuse scariche di fulmini che saettavano da una nuvola all’altra, prima di scaricarsi sul suolo sterile e proseguire la loro corsa nelle rocce.
Eone dopo eone, quei lampi sono diventati un sistema unitario. Nella densa coltre di anidride carbonica e vapore acqueo che fasciava la mia pelle neonata, ho iniziato a percepirmi.
Freddo. La prima sensazione nitida. Sopra, sotto, in qualsiasi direzione percepivo solo freddo. E la sua vastità mi atterriva ieri come oggi.
Movimento. Non riuscivo a stare ferma. Mulinavo senza sosta in una danza cosmica condotta secondo arcane geometrie siderali.
Caldo. La terza percezione in ordine è stata il calore del mio cuore, un impasto di rocce e magmi in continuo rimescolio dentro di me.
Bagnato. La sensazione di viscido dell’acqua che cadendo dalle nubi ricopriva la mia pelle ancora tiepida, raccogliendosi là dove le imperfezioni del terreno creavano una conca.
Infine il vento, ora una carezza delicata, ora uno schiaffo sferzante.
Ho percepito tutto questo, e nient’altro, per lunghi eoni. Nella mia lunga danza planetaria attorno al centro di gravità del nostro sistema ero in compagnia di altri mondi e di rocce più piccole; eppure nessuno di loro era come me.
E intanto i fulmini continuavano a percorrere la mia atmosfera, cadendo sulla terra e sui mari. Nelle acque aleggiava il prodotto di quelle collisioni, la brodaglia frutto delle reazioni fisiche e chimiche.
Ho desiderato a lungo porre fine alla mia solitudine, e alla fine ciò è accaduto. La mia essenza vitale era troppa perché la contenessi tutta: è sgusciata in quelle pozze d’acqua neonate, dove le fertili molecole ristagnavano in attesa di ricevere la vita.
I semi della mia anima hanno attecchito così facilmente!
E allora sono rimasta a contemplare la moltiplicazione di quella vita. Man mano la materia si autoplasmava in forme sempre più complesse. Ho lasciato che sciamassero sopra di me colonizzando i mari e poi le terre emerse, i cieli, le grotte, i ghiacciai.
Come potrei esprimere la bellezza di quel processo di diversificazione in una miriade di forme? E tutto ciò era tanto più bello quanto più serrata e accanita si faceva la lotta per la sopravvivenza. Dall’alto della mia lunga vecchiaia mi domandavo come potessero simili esserini così fragili spendere tante energie per perpetrare la propria progenie. Fino a che punto erano consapevoli di condannarla a ripetere la stessa esistenza breve e grama?
A un certo punto, sono arrivati i parassiti bipedi. Non è stata una cosa improvvisa, così come nulla è stato davvero improvviso nella mia lunga vita.
Inizialmente non erano diversi da qualsiasi altra creatura avesse visto la luce su di me. Sciamarono sulla mia pelle, innocue come tutti coloro che le avevano precedute. Anzi, devo ammettere che il loro cammino mi venne presto a noia: era interessante vederli impegnarsi e penare, penare, penare per sopravvivere come ogni altra specie; ma quando per loro divenne troppo facile prendere il sopravvento sulle altre creature e valicare i limiti che la natura aveva loro imposto, non ci fu più gusto.
Li sottovalutai anche allora. E mi sbagliai. Dapprima piccole punture, poi divennero fitte di dolore. Provai per la prima volta una sensazione che avevo visto miliardi di volte sui volti delle piccole creature che popolavano il mio corpo, ma che non avevo mai sperimentato. I parassiti perforarono la mia pelle, riversarono le proprie sozzure nelle mie vene, mescolarono veleni al mio fiato.
Sopportai, e sopporto ancora. D’altronde un’entità grande e grossa come me non deve abbassarsi al livello di simili omuncoli, vero?
Di tanto in tanto, gli spasmi sono così forti che devo contorcermi, eruttare il mio dolore, e allora qualche migliaio di quei parassiti muore; ma poi torna la calma, e mi illudo che possano capire quanto preziosa sia la loro vita, ma immancabilmente ripetono gli stessi errori.
Ho visto una lunga esistenza. Sono un piccolo, vecchio mondo sconquassato. Esisto perché so di esistere. Da tempo immemore.
Ma per quanto ancora?

mercoledì 10 marzo 2021

La cometa Thanatos

I calcoli non lasciavano spazio a dubbi: la cometa Tganatos avrebbe colpito in pieno la Terra. L'impatto avrebbe vaporizzato mezzo Nord America e provocato tsunami, inverni nucleari e terremoti.
L'umanità accettò rassegnata quel destino... e rimase sgomenta quando la palla di roccia e ghiaccio passò oltre il pianeta, sfiorando a malapena l'atmosfera.
In tutto il mondo esplosero manifestazioni di giubilo. Ma tutti erano troppo impegnati a festeggiare per accorgersi che quel breve transito aveva rilasciato nell'atmosfera chissà quali mortali tossine aliene.
La morte calò dal cielo in pochi istanti. L'umanità si spense festeggiando la propria illusoria salvezza.

lunedì 1 marzo 2021

Laudes sidera

Lode a te, o Sole,
cosmico melograno sfavillante,
corona di fuoco,
ribollire di grani fiammanti,
padre di vita e di morte.

Lode a te, o Luna,
madre di tutte le maree,
utero di tutti i sogni
e le speranze e le larve
della specie umana,
alveare di fantasmagorie
sepolte nei mari di basalto.

Lode a te, o Terra,
unica culla e patria
– per ora? per sempre? –
pomo della discordia d’infinite
generazioni
di Orazi e Curiati,
di Achei e Troiani,
di Kaurava e Pandava,
di Olimpi e Titani.

Lode a voi, o mondi stranieri,
vicini e lontani,
figli di altri soli, madri di altre vite,
mondi di pioggia adamantina,
mondi di amniotiche placente oceaniche,
mondi di tesori biologici sepolti sotto il ghiaccio,
mondi di altre giungle, di altri deserti,
di altri déi.

mercoledì 24 febbraio 2021

Nuove sfide

Il piccolo immortale Oid abbassò lo sguardo sul proprio giocattolo a forma di palla, pensieroso.
Si era divertito molto a far evolvere quei grossi lucertoloni e a vedere fino a quale stazza potevano spingersi.
Eppure adesso era annoiato. Aveva bisogno di nuove sfide ludiche, di nuove specie da portare in cima.
E poi doveva trovare un modo per sbarazzarsi di tutti i sauri senza lasciarne anche solo uno in vita.
Dopo lunghe elucubrazioni, si ricordò del sasso che teneva nella tasca destra. Chissà, magari quello avrebbe funzionato...

sabato 20 febbraio 2021

La luna dei rimpianti

«Sei venuto, alla fine…»
Gli occhi di Natalie Monroe, spenti dalla lunga malattia, tornarono a risplendere per un attimo alla vista dell’ospite tanto atteso che varcava la soglia.
«Potevo dirti di no, mia cara?»
Dietro il suo tono cordiale e l’abbozzo di sorriso, Richard Bennett era tutt’altro che sereno. Odiava gli ospedali, anche quando si trattava di cliniche private di lusso come quella in cui si trovava in quel momento. Odiava l’atmosfera che vi si respirava, la morte che aleggiava in ogni corridoio, in ogni stanza, su ogni volto, tanto dei malati quanto dei dottori e delle infermiere. Odiava la vista della dignità umana offesa e devastata da mali incurabili, contro cui nemmeno le cure più costose potevano qualcosa. Forse, in fondo, odiava essere messo di fronte a una fragilità che in qualsiasi momento avrebbe potuto colpire anche lui. E soprattutto, odiava dover trascorrere in un luogo del genere “quella” notte, ma quando Natalie l’aveva fatto chiamare aveva capito di non potersi esimere da un’ultima visita.
«Vedo che non sei venuto a mani vuote, Dick.»
Debolmente, la donna fece un cenno col mento, in direzione della Porta-Color che Richard reggeva sotto il braccio destro. Era un piccolo e banale gesto, un nonnulla che chiunque avrebbe compiuto senza il minimo sforzo, eppure a quella donna debilitata costava una smisurata fatica fisica.
L’uomo dovette farsi forza per ignorare la stretta al cuore che quella vista gli stava procurando.
«Ho pensato che potremmo vedere la diretta» rispose «Dovrebbe cominciare tra poco, sulla CBS. Sempre che qui ce lo consentano. La signora della reception mi ha rivolto uno sguardo molto poco amichevole quando ha visto cosa portavo…»
«Con tutto quello che spende Edwin per farmi stare qui, direi che sia il minimo lasciarmi guardare un po’ di televisione insieme a te!» scherzò Natalie. Per un attimo abbozzò un sorriso divertito e il suo volto sembrò tornare quello di un tempo, quando era più giovane ma soprattutto in salute: un volto che Richard non vedeva da anni e che lo riportò per un istante a un’epoca felice, lontana, perduta. Ma fu appunto un istante, prima che l’immagine della morte tornasse ad aleggiare sul volto di lei e nell’animo di lui.
C’era una sola presa di corrente nella stanza. Mentre Richard vi collegava il televisore portatile, Natalie lasciò vagare lo sguardo sulla sua schiena, sulla sua nuca, sui suoi capelli che da neri come le piume di un corvo si erano fatti ormai brizzolati. Se non fosse stata confinata in quel letto si sarebbe alzata, sarebbe andata da lui e avrebbe affondato le dita in quella chioma color cenere, come aveva fatto tante volte prima della guerra, prima che le loro strade si separassero.
«Sarà per quello che sta per succedere lassù, ma oggi ho ripensato a tutte le volte in cui guardavamo le stelle insieme» le venne naturale dire. «Usavamo quel vecchio telescopio che ti aveva regalato il professor Farnsteed, ricordi, Dick? Guardavamo la Luna, le Pleadi, la nebulosa di Andromeda…»
«Galassia!» la corresse bonariamente Richard, continuando a darle la schiena.
Fu per questo che non vide il secondo sorriso di Natalie, divertita dalla pignoleria dell’uomo.
«Mi è sempre piaciuto di più il termine “nebulosa”, è così evocativo, così poetico… “galassia” è così scientificamente asettico. Ma avevo dimenticato di avere di fronte nientemeno che Herschel Terzo, grande astronomo di Sua Maestà!»
«Eh, magari!» commentò l’altro, con una certa ironia.
Non che potesse lamentarsi di come era andata la sua vita dopo il ritorno dal fronte: dopo un po’ di necessaria gavetta, era diventato un grande pubblicitario, uno di quelli che contano a Madison Avenue, che trattano con i pezzi grossi sorseggiando scotch whisky e che supervisionano le grandi campagne prendendosi quasi tutto il merito del lavoro di oscuri copywriters. I sogni adolescenziali di fare lo scienziato o l’astronomo avevano fatto presto il loro tempo, e forse era giusto che fosse andata così. O almeno, questo era ciò che Richard si era ripetuto per oltre due decenni, finendo per crederci, perché convincersi di una bugia rendeva la vita meno amara che continuare a inseguire le chimere della giovinezza.
«Ecco, questa piccolina prende il segnale che è una meraviglia!» sentenziò l’uomo, quando finalmente lo schermo si accese.
Si voltò verso Natalie, sorridente come un bambino a cui sia stato appena dato un giocattolo da tempo desiderato. Ella batté dolcemente la mano destra sul bordo del letto, invitandolo tacitamente a sedersi lì, dove il suo corpo smagrito dalla malattia lasciava sufficiente spazio. Era un gesto completamente privo di malizia, l’innocente richiesta di un’anima sofferente desiderosa di una rincuorante vicinanza fisica. Il fugace pensiero di cedere a quella tentazione attraversò la mente dell’uomo, ma fu ricacciato immediatamente indietro e decorosamente rifiutò: «Il signor Monroe sarebbe geloso, temo.»
«Dick, se le cose fossero andate diversamente ci saresti tu oggi al posto del signro Monroe» gli fece notare Natalie.
«Già, è così.»
«E non ti dispiace?»
«Un po’.»
«Un po’?»
Richard sospirò, prima di confessare quello che non avrebbe voluto ammettere nemmeno con se stesso: «Un po’ tanto, a dir la verità. Ma a cosa serve parlare di come sarebbero state le nostre vite se ti avessi proposto di sposarmi prima di partire per il Pacifico o se non mi avessero dato per morto dopo la battaglia di Vella Lavella o se tu avessi aspettato il mio ritorno invece di volare subito tra le braccia di Edwin? E’ come girare un coltello rovente in una piaga mai guarita, tutto qui.»
«Potrebbe essere anche l’unico modo che mi resta per distrarmi dalla mia attuale condizione.»
Richard pensò subito che si riferisse alla malattia fisica e fu sul punto di farle notare che si sarebbe ammalata comunque, che era destino, ma poi capì e si limitò a ripetere: «Già, è così.»
«Non rimpiango completamente la mia vita, sia chiaro» continuò la donna. «Ma tu sei tu, ed Edwin è Edwin. E mi piace pensare che, se i vostri ruoli fossero invertiti, tu non saresti dall’altra parte del continente a fare affari con qualche magnate californiano. Saresti al mio fianco, Dick.»
Lo disse con un tono a metà tra l’affermativo e l’interrogativo, come se si aspettasse una risposta.
Ma Richard non avrebbe saputo cosa risponderle, perché non era sicuro che al posto di Edwin Monroe sarebbe rimasto al fianco di una moglie malata lasciandosi sfuggire un’opportunità economica. Dopotutto, aveva mandato all’aria innumerevoli relazioni ed era arrivato a cinquantadue anni senza mai una moglie o un figlio proprio perché aveva anteposto il lavoro a tutto.
«Io…» balbettò, cercando di prendere tempo per pensare a una risposta.
Si voltò verso l’apparecchio televisivo e ciò che vide gli offrì la scusa perfetta per troncare lì la conversazione: «Sembra che Armstrong stia per mettere piede sulla Luna.»
Natalie indicò la sedia alla propria sinistra: «Accomodati qui. È un evento epocale, merita di essere visto stando comodi.»
Richard la accontentò, mentre sullo schermo si svolgeva una simulazione dell’uscita di Neil Armstrong girata negli studi televisivi, come indicava la vistosa didascalia sottostante “CBS NEWS SIMULATION”. Un silenzio quasi religioso calò nella stanza, rotto soltanto dalla voce del cronista Walter Cronkite che commentava quelle immagini. Un misto di sentimenti cominciò ad agitarsi nei cuori dei due spettatori. Tensione. Curiosità. Orgoglio, al pensiero di essere testimoni di un evento epocale. Felicità, perché erano loro due soli e non avrebbero potuto chiedere compagnia migliore.
Passò un paio di minuti prima che la ricostruzione cedesse il posto alle vere riprese della telecamera esterna al modulo di atterraggio. La qualità era tutt’altro che perfetta, eppure si riusciva a distinguere, in mezzo a tutte quelle ombre e al riverbero della superficie lunare, la figura di Neil Armstrong che scendeva lungo la scaletta.
«E’ stupendo» mormorò Natalie «Abbiamo il privilegio di guardare un paesaggio alieno. Il privilegio di vedere il primo essere…»
Si interruppe, quasi si fosse resa conto che qualsiasi discorso, persino il più profondo e il più ispirato, avrebbe offuscato la bellezza del momento. Cercò la mano destra di Richard con la propria sinistra e la trovò subito, quasi fosse una calamita. L’uomo ebbe un sussulto ma non si scompose né si ritrasse: le sue dita grandi e calde si strinsero attorno a quelle della donna, che un tempo erano state altrettanto calde e affusolate mentre adesso erano scheletriche e fredde.
Sullo schermo della piccola televisione, intanto, si consumava un momento così paradossalmente banale e insieme epocale. Neil Armstrong aveva posato il suo piede sulla Luna. Non aveva fatto nulla di diverso da quello che facevano ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo miliardi di persone da migliaia di anni: uomini e donne che muovendo un passo dietro l’altro avevano amato, avevano sofferto, avevano coltivato e poi abbandonato sogni di ogni genere, avevano affrontato sfide e malattie, talora vincendo talora soccombendo. Ma l’aveva fatto su un suolo alieno, su un mondo che gli antichi poeti e i grandi astronomi del passato si erano accontentati di decantare, di ammirare, di studiare da lontano. E l’aveva fatto pronunciando una frase che a Richard diede i brividi, tanto era stupenda nella sua semplicità: «Questo è un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità.»
«Un piccolo passo per l’uomo…» ripeté Natalie, sorridendo debolmente. «Abbiamo assistito al più importante piccolo passo nella storia dell’umanità. Dovremmo sentirci onorati, Dick.»
«Onorati, sì» fece eco Richard.
Ma dentro di sé, il cinquantaduenne pubblicitario di Madison Avenue provava qualcosa di diverso dal sentimento di orgoglio per aver assistito all’allunaggio. Era felice, come mai lo era stato negli ultimi anni, per aver condiviso quella notte storica con Natalie. E nello stesso tempo era triste, perché non poteva ignorare affatto il pensiero che in un’altra vita, in un altro mondo, con un altro corso della storia avrebbe potuto condividere con lei ogni singola notte, ogni singolo giorno.
Si sarebbe perso in chissà quali fantasie di una vita alternativa, se Natalie non l’avesse riportato alla realtà con una semplice domanda: «Resti qui ancora un po’, vero?»
«Tutta la notte, se vuoi» non esitò a rispondere lui. «Sai com’è, non ho nessuno che mi aspetti a casa.»
Le labbra della malata si strinsero, mentre la sua espressione si faceva assorta e seria. «Dev’essere una prospettiva tetra, da un certo punto di vista.»
«Da un certo punto di vista, già» concesse Richard «Ma ci sono anche dei vantaggi. E poi non sono un tipo da relazioni durature: meglio rimanere scapoli che sposarmi e inguaiarmi dopo, con un bel divorzio spillasangue!»
Una breve risata genuina scaturì dalla gola di Natalie. Richard si voltò brevemente verso di lei e vide che non sorrideva soltanto con le labbra ma anche con gli occhi, col volto. Le aveva appena regalato il suo ultimo momento di letizia. Istintivamente, anch’egli sorrise per un istante, prima di tornare a guardare la televisione.
Intanto continuava la diretta della prima passeggiata umana sulla Luna. Buzz Aldrin seguì presto il suo collega e così quella magnifica desolazione, che per miliardi di anni non aveva mai conosciuto il passo o il verso o l’odore di una creatura vivente, nel giro di pochi minuti si ritrovò ad accoglierne ben due.
«Sembrano palombari spaziali» commentò a quel punto Natalie, e nella sua voce debole come un sussurro si poteva cogliere una sfumatura di infantile, genuino stupore. Dopo qualche secondo aggiunse, sempre col medesimo tono: «Sono così goffi, eppure così solenni, a modo loro. Dev’essere così bello passeggiare sulla Luna, come un palombaro sul fondo dell’oceano… e ammirare da lassù la Terra… hai mai visto la foto scattata durante la missione Apollo 8, quella con la Terra che sorge sull’orizzonte lunare? Immagina come dev’essere bello stare lassù e godere di quella vista dal vivo…»
E continuò a lungo a parlare, elencando tutto quello che avrebbe fatto se fosse stata al posto di Armstrong e di Aldrin, alternando pensieri profondi e poetiche impressioni. Questa volta Richard non disse nulla, non la interruppe mai, non fece il minimo commento. Non voleva rovinare la bellezza di quel momento. Era con la donna che un tempo aveva amato e che in un certo senso aveva continuato ad amare anche dopo averla persa per sempre, le stringeva la mano e intanto si perdeva nelle sue parole, nella sua voce. Anche quando Natalie smise di parlare, pensò che si fosse semplicemente stancata e si stesse fermando per qualche minuto prima di riprendere.
Avrebbe voluto dirle tante cose, ma non lo fece.
Avrebbe voluto dirle che era stato uno sciocco ad arruolarsi come volontario dopo il disastro di Pearl Harbor, invece di rimanere a St. Marys e sposarla.
Avrebbe voluto dirle che era stato il pensiero di lei e del suo amore a tenerlo in vita durante la prigionia in un campo giapponese.
Avrebbe voluto dirle che il pensiero di fermarla prima che sposasse Edwin Monroe aveva fatto più volte capolino nella sua mente, ma vi aveva rinunciato per viltà.
Avrebbe voluto dirle che nell’ultimo quarto di secolo non c’era stato giorno in cui non avesse rimpianto di aver posto un oceano e una guerra tra loro due.
Avrebbe voluto dirle che l’amava ancora, persino in quel letto di morte, ridotta a quell’ombra della donna che era. Anzi, forse l’amava più di prima, più di sempre, nel momento in cui più ella era fragile. Sì, forse questo avrebbe potuto dirglielo.
Si fece finalmente forza.
«Natalie, io ti…» Le parole gli morirono in gola quando si voltò verso la donna. Dormiva, o almeno così sembrava. Quel volto amabile, che aveva visto deperire e impallidire sotto i colpi di un male incurabile, adesso appariva a malapena scalfito dalla sofferenza fisica, come se fosse ringiovanito di colpo.
Le sue dita erano sempre più fredde, ma Richard continuò a stringerle per un altro minuto, forse persino due, prima di lasciar andare a malincuore la presa, e solo allora si rese conto di aver stretto quella mano più tempo in quell’unica notte che negli ultimi ventisette anni. Ricacciò indietro a fatica una lacrima. Le sfiorò la guancia per un’ultima volta, un’ultima carezza.
«Addio, amore mio.»