sabato 13 marzo 2021

La prospettiva di Gaia

Esisto. Qui, nello spazio e nel tempo.
Penso.
Ho coscienza di me. So di esistere.
Anzi, esisto perché so di esistere. Da tempo immemore.
Ma per quanto ancora?
I miei primi pensieri sono stati confuse scariche di fulmini che saettavano da una nuvola all’altra, prima di scaricarsi sul suolo sterile e proseguire la loro corsa nelle rocce.
Eone dopo eone, quei lampi sono diventati un sistema unitario. Nella densa coltre di anidride carbonica e vapore acqueo che fasciava la mia pelle neonata, ho iniziato a percepirmi.
Freddo. La prima sensazione nitida. Sopra, sotto, in qualsiasi direzione percepivo solo freddo. E la sua vastità mi atterriva ieri come oggi.
Movimento. Non riuscivo a stare ferma. Mulinavo senza sosta in una danza cosmica condotta secondo arcane geometrie siderali.
Caldo. La terza percezione in ordine è stata il calore del mio cuore, un impasto di rocce e magmi in continuo rimescolio dentro di me.
Bagnato. La sensazione di viscido dell’acqua che cadendo dalle nubi ricopriva la mia pelle ancora tiepida, raccogliendosi là dove le imperfezioni del terreno creavano una conca.
Infine il vento, ora una carezza delicata, ora uno schiaffo sferzante.
Ho percepito tutto questo, e nient’altro, per lunghi eoni. Nella mia lunga danza planetaria attorno al centro di gravità del nostro sistema ero in compagnia di altri mondi e di rocce più piccole; eppure nessuno di loro era come me.
E intanto i fulmini continuavano a percorrere la mia atmosfera, cadendo sulla terra e sui mari. Nelle acque aleggiava il prodotto di quelle collisioni, la brodaglia frutto delle reazioni fisiche e chimiche.
Ho desiderato a lungo porre fine alla mia solitudine, e alla fine ciò è accaduto. La mia essenza vitale era troppa perché la contenessi tutta: è sgusciata in quelle pozze d’acqua neonate, dove le fertili molecole ristagnavano in attesa di ricevere la vita.
I semi della mia anima hanno attecchito così facilmente!
E allora sono rimasta a contemplare la moltiplicazione di quella vita. Man mano la materia si autoplasmava in forme sempre più complesse. Ho lasciato che sciamassero sopra di me colonizzando i mari e poi le terre emerse, i cieli, le grotte, i ghiacciai.
Come potrei esprimere la bellezza di quel processo di diversificazione in una miriade di forme? E tutto ciò era tanto più bello quanto più serrata e accanita si faceva la lotta per la sopravvivenza. Dall’alto della mia lunga vecchiaia mi domandavo come potessero simili esserini così fragili spendere tante energie per perpetrare la propria progenie. Fino a che punto erano consapevoli di condannarla a ripetere la stessa esistenza breve e grama?
A un certo punto, sono arrivati i parassiti bipedi. Non è stata una cosa improvvisa, così come nulla è stato davvero improvviso nella mia lunga vita.
Inizialmente non erano diversi da qualsiasi altra creatura avesse visto la luce su di me. Sciamarono sulla mia pelle, innocue come tutti coloro che le avevano precedute. Anzi, devo ammettere che il loro cammino mi venne presto a noia: era interessante vederli impegnarsi e penare, penare, penare per sopravvivere come ogni altra specie; ma quando per loro divenne troppo facile prendere il sopravvento sulle altre creature e valicare i limiti che la natura aveva loro imposto, non ci fu più gusto.
Li sottovalutai anche allora. E mi sbagliai. Dapprima piccole punture, poi divennero fitte di dolore. Provai per la prima volta una sensazione che avevo visto miliardi di volte sui volti delle piccole creature che popolavano il mio corpo, ma che non avevo mai sperimentato. I parassiti perforarono la mia pelle, riversarono le proprie sozzure nelle mie vene, mescolarono veleni al mio fiato.
Sopportai, e sopporto ancora. D’altronde un’entità grande e grossa come me non deve abbassarsi al livello di simili omuncoli, vero?
Di tanto in tanto, gli spasmi sono così forti che devo contorcermi, eruttare il mio dolore, e allora qualche migliaio di quei parassiti muore; ma poi torna la calma, e mi illudo che possano capire quanto preziosa sia la loro vita, ma immancabilmente ripetono gli stessi errori.
Ho visto una lunga esistenza. Sono un piccolo, vecchio mondo sconquassato. Esisto perché so di esistere. Da tempo immemore.
Ma per quanto ancora?

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