«Si accomodi, signor D.»
Sono nervoso.
È la prima volta che mi trovo al cospetto di un censore dell’ufficio Inquisizione e Controllo Testi, l’ultimo ostacolo da superare se si vuole pubblicare un libro nel 2229. Il suo imprimatur è una di quelle cose per cui un letterato venderebbe la propria madre, o l’anima, o l’anima della madre.
Le mie dita si ancorano ai braccioli della poltroncina. Non sono mai stato bravo a bluffare in momenti di grande ansia, ma mi sforzo di fare in modo che la stretta delle dita sul rivestimento in ecopelle siano il solo segno della mia agitazione.
L’uomo di fronte a me è calvo e pallido. Sembra uno di quei manichini robotronici dei grandi magazzini, anatomicamente indistinguibili dagli esseri umani. Per un attimo il dubbio che anche il censore sia un androide mi sfiora la mente.
Abbasso lo sguardo sulla targhetta all’altezza del petto. NQS-1138. Solo sigle e numeri, nessun nome proprio.
«Come ben sa, signor D.», attacca lui, «dal 2152 è autorizzata la pubblicazione soltanto di quelle opere che rispettano i Cinque Punti stabiliti dal professor Démokritosz Čapek. I governi passati si sono impegnati così tanto per bandire il più possibile le dannose emozioni dell’animo umano e sarebbe un vero peccato se una novella o una canzonetta dovessero riaccenderle… concorda con me?»
«Indubbiamente», rispondo io.
Del resto, cos’altro potrei dirgli? Che odio visceralmente quelle maledette cinque regolette che hanno trasformato l’arte, o meglio ciò che ne resta, in qualcosa di freddo e insignificante? Che erano bei tempi quelli in cui si poteva scrivere liberamente un sonetto, un romanzo di fantascienza, un poema epico, una fiaba senza essere arrestati, incarcerati e lobo-rieducati forzatamente? No, grazie, ci tengo alla mia vita, prima ancora che al visto “si stampi” per la pubblicazione dei miei racconti.
Il censore mi squadra per qualche secondo. Forse intuisce che sto avendo pensieri perniciosi, o forse è solo sospettoso verso chiunque. Il suo volto non tradisce la minima espressione, il suo corpo è impassibile come quello di una statua. Dev’essere sicuramente arrivato a un alto livello di ataraxia, forse il settimo o l’ottavo, magari addirittura il nono, per poter essere così apatico. Non ho mai visto un essere umano così vicino al nirvana, l’ultimo stadio della scala M.O.K.S.A., la totale assenza di sentimenti e di emozioni, l’individuo ridotto a fredda e razionale efficienza.
So che l’attuale obiettivo è di portare ogni singolo cittadino almeno al settimo livello, quindi credo che presto o tardi tutto il pianeta sarà popolato solo da manichini di carne imperturbabili. Col mio misero livello di ataraxia non farei una bella figura in una società del genere.
Per fortuna, l’inquietante silenzio calato nell’ufficio è rotto ancora una volta dalle parole del censore: «Procediamo con l’analisi del suo scritto e la sua conformità ai Cinque Punti».
Pigia un paio di tasti sulla propria tablet-scrivania e genera una proiezione olografica di un documento. Capisco subito che si tratta della scheda di valutazione del mio lavoro, anche se dal mio lato della scrivania posso vedere le scritte al contrario. Non che mi serva leggere: ci pensa NQS-1138 a leggere per me.
«Primo punto: è vietato pubblicare opere che condannino esplicitamente o implicitamente il governo e le istituzioni o che minimo in maniera esplicita o implicita il consenso nei confronti dell’operato degli stessi. Il suo dattiloscritto rispetta questo punto.»
Mi sono impegnato con tutto me stesso a non parlare nemmeno di sfuggita di politica, e a quanto pare ho fatto bene. Il primo ostacolo è superato.
«Secondo punto: è vietato pubblicare opere che siano in versi o rimate, perché la poesia è potenzialmente pericolosa e sovversiva, soprattutto nel caso degli animi più deboli e delle menti più facilmente suggestionabili.
Il suo dattiloscritto rispetta questa secondo.»
Per forza, è una raccolta di racconti.
«Terzo punto: è vietato pubblicare opere di argomento fantastico, intendendo con tale denominazione tutte quelle opere che tratteggiano mondi o epoche differenti da quella attuale o da epoche passate debitamente documentate e ricostruibili. Il suo dattiloscritto rispetta questo punto.»
Menomale che non mi sono dato al fantasy. E siamo a metà, altri due punti.
«Quarto punto: è vietato pubblicare opere che mettano in scena situazioni incompatibili con la morale pubblica e con la dottrina dell’ataraxia.»
Questa volta il censore non dice se il mio dattiloscritto rispetta il punto in questione, ma nemmeno se lo viola. Devo pensare a un lapsus involontario? Oppure dietro quell’omissione c’è qualcosa di più? Ma non ho tempo per scervellarmi al riguardo, perché arriva l’ultimo ostacolo.
Quinto punto: è vietato pubblicare opere in cui siano descritti sentimenti violenti, illogici o comunque capaci di turbare l’animo umano. Purtroppo il suo dattiloscritto non rispetta questo punto…»
Faccio per aprir bocca, per giustificarmi, ma il pelato mi anticipa: «Le prime tre storie sono a posto, signor D. Il problema è la quarta. Mi pare si intitolasse Elogio…»
«Elegia materna», lo correggo.
NQS-1138 annuisce. «Lei ha scritto un racconto in cui il protagonista veglia la madre malata terminale, consolandola e parlandole finché non esala l’ultimo respiro. Stilisticamente è una prosa ineccepibile, ma rischia di risvegliare pericolose passioni nell’animo dei lettori, non trova?»
«Non capisco a cosa allude», mento.
«Commozione, pietà, tristezza, pianto», elenca l’uomo con un crescendo di disgusto nella voce. Arrivato all’ultima parola, la pronuncia come se fosse la peggiore delle bestemmie e persino la sua maschera di imperturbabilità è smossa per qualche secondo da una smorfia.
«La cosa peggiore», continua, «è che questa storia va contro ogni buonsenso, signor D. Qual è il suo grado di ataraxia?»
Esito un paio di istanti prima di rispondere: «Cinque, censore».
Sto mentendo, in un certo senso. Sulla carta sono un livello cinque, ma solo perché un amico si è accollato la responsabilità di falsificare i documenti. In realtà sarei un livello tre, poco al di sopra delle bestie secondo la classificazione M.O.K.S.A.
«Persino un livello cinque come lei converrà che è profondamente deplorevole per un cittadino perdere tempo dietro un individuo ormai condannato dalla biologia…»
Qualcosa scatta in me. Bisogna essere davvero stupidi o sfacciati per interrompere un censore dell’ufficio Inquisizione e Controllo Testi, e io mi sono sempre vantato di non essere né l’uno né l’altro; ma questa volta non posso restare in silenzio.
Forse sono stanco di dover sempre chinare il capo, forse sono davvero orgoglioso del mio lavoro e non posso accettare che un racconto in cui ho profuso tutto me stesso venga liquidato così sbrigativamente. Ci ho messo l’anima per scriverlo, dannazione! Il modo in cui il protagonista ricorda l’infanzia povera ma piena di piccole felicità! La grazia con cui descrivo l’immagine che ha di sua madre da giovane, sorridente, quasi circonfusa di luce, persino dopo una massacrante giornata di lavoro! La poesia, il lirismo che ho saputo tirar fuori per narrare gli ultimi istanti di vita della donna! Non posso permettere che tutto questo venga cestinato.
Raccolgo a piene mani il coraggio e preciso: «Il mio racconto non vuole incitare all’attaccamento verso le persone morenti, censore. Mi piace pensare che dia una lezione completamente opposta. Il protagonista rivive nella mente tutti i ricordi felici con la madre e alla fine capisce che è giusto lasciarla andare, che la donna gli ha già dato abbastanza e che nulla può durare per sempre. E non è questo un insegnamento in linea con la dottrina dell’ataraxia?»
Vorrei che l’uomo di fronte a me ammettesse che ho ragione. Vorrei sentirmi dire “È come lei dice, signor D.”. Mi accontenterei persino di vederlo tentennare qualche secondo e spremersi le meningi prima di trovare qualche argomentazione che confuti la mia. Invece NQS-1138 replica senza battere ciglio: «Il problema è che vuole trasmettere questo messaggio in un modo sbagliato. Bisogna evitare a tutti i costi l’attaccamento affettivo, signor D., combatterlo alla radice. Lei, invece, vuole far passare il messaggio che è giusto affezionarsi alle persone, purché si riesca a lasciarle andare quando arriva il momento.»
«Stiamo comunque parlando di una madre…», cerco di far notare, ma vengo interrotto ancora: «Un genitore è solo un individuo che ci ha messi al mondo, dopodiché apparteniamo alla società. L’attaccamento filiale è la prima radice di ogni fallimento sociale, diceva il professor Čapek.»
Chissà se il tanto illustre professor Čapek ha mai avuto una mamma e ha provato del bene per lei. E chissà se l’ha mai provato il censore che mi sta di fronte e che con il solito tono glaciale conclude: «Accetti un consiglio, signor D. Metta da parte questi sogni puerili da scrittore e trovi un modo per essere più utile alla società. Di scrittori che ne sono stati a bizzeffe nei secoli passati e guardi quanti danni hanno causato con le loro corbellerie».
Il responso è stato dato. Bocciatura senza appello.
Mi alzo meccanicamente, come un androide. Ho la bocca impastata e riesco a biascicare un semplice: «Buona giornata» e mi avvio verso la porta.
Nessuna risposta da parte del censore, ma con la coda dell’occhio noto che porta la mano destra sotto la scrivania. Un brivido mi corre lungo la schiena, ma caccio via dalla mente il pensiero oscuro che è appena venuto a tormentarmi.
Ho solo proposto dei racconti un po’ troppo emotivi, nulla di che. Possibile che per così poco possa…? No, mi dico, forse si è solo sistemato il cavallo dei pantaloni. Forse gli è venuta un’erezione dopo aver stroncato il mio lavoro e si sta facendo una sega. Già, c’è chi si eccita con le donne nude e chi facendo censure. A quell’immagine trattengo a stento una risata, prima di infilarmi nell’ascensore.
Duecentocinquantaquattro piani dopo, nel parcheggio sotterraneo, mi attendono due uomini in nero del centro di lobo-rieducazione.