domenica 10 gennaio 2021

Recensioni e opinioni: Vikings


Ieri ho finalmente concluso la visione della seconda parte della sesta stagione di Vikings.
Amazon Prime Video ha avuto la brillante idea di rilasciare tutti i dieci episodi conclusivi in una botta sola, perché noi recensori di serie televisive non siamo già abbastanza incasinati con le uscite settimanali e serie rilasciate in blocco da Netflix, no, abbiamo bisogno di ulteriori binge watching. Comunque sia, sono riuscito ad arrivare fino alla fine e mi sento in dovere di tirare le somme.
Il mio rapporto con Vikings si è evoluto molto nel corso del tempo. Le prime stagioni erano riuscite a colpirmi per la loro cura storica, seppur non mancassero svarioni anche abbastanza grossi, e soprattutto per lo stile di Michael Hirst, fatto di lunghi silenzi, paesaggi nordici mozzafiato, inserti etnografici da documentario (dopotutto la serie andava in onda su History Channel), citazioni mitologiche a iosa. C'erano persino interi dialoghi in norreno o in anglosassone, cosa che, per uno come me che ha fatto due tesi di laurea in filologia germanica e ha una grande passione per le culture germaniche del Medioevo, equivaleva al paradiso. Più avanti hanno aggiunto anche altre lingue, l'arabo, il greco bizantino, l'antico slavo, alla fine addirittura il mi'kmaq, a riprova di quanta attenzione per la fedeltà storica ci sia dietro il prodotto.
Vikings era una serie che spiccava nell'epoca in cui uscì, perché era nata nel solco del revival medievale inaugurato da Game of Thrones ma aveva una sua voce peculiare, riconoscibilissima. Anzi, se devo essere sincero ho sempre trovato la messa in scena e la regia di Vikings molte spanne sopra quelle di Game of Thrones (episodi diretti da Sapochnik a parte), molto più "personale" e peculiare. Per intenderci, se guardi una qualsiasi scena di Vikings, che sia della prima o dell'ultima stagione, senti che dietro c'è la mano di Michael Hirst; viceversa, con la maggior parte degli episodi di Game of Thrones sei di fronte a una regia "neutra", basilare, che non ha la minima personalità (tranne nei suddetti episodi diretti da Sapochnik).
Anche a livello di musiche, reputo la colonna sonora di Vikings un'autentica perla: evocativa, suggestiva, profonda, impreziosita dalle canzoni dei Wardruna. Probabilmente agli Emmy Awards avrebbe meritato qualche riconoscimento in più.
E poi Vikings aveva un ottimo cast. Siamo sinceri, la serie non avrebbe avuto molto del suo fascino senza l'interpretazione di Travis Fimmel, uno che prima faceva il modello e su cui non avresti scommesso nemmeno un centesimo, ma che è riuscito a dar vita a un personaggio davvero complesso e convincente. Certe faccine stralunate che faceva nei panni di Ragnar non le avrebbe fatte nessuno, davvero. C'erano Katheryn Winnick, Gustaf Skarsgård, Clive Standen, George Blagden, Linus Roache, Gabriel Byrne, tutti davvero convincenti. Certo, condividevano la scena con un certo Alexander Ludwig che sta alla recitazione come Le bizzarre avventure di JoJo stanno alla normalità, ma era uno dei pochi nei nel cast.
Le prime stagioni, dicevo, sono indimenticabili. Non erano perfette, c'erano personaggi meno valorizzati di altri, passaggi troppo sbrigativi o, al contrario, troppo tirati per le lunghe e qualche calo di ritmo davvero fastidioso. Ho ancora gli incubi al ricordo della puntata al tempio di Uppsala in cui per tre quarti d'ora mostrano un documentario sulla spiritualità norrena, non una serie televisiva, e l'unico avanzamento di trama degno di nota avviene nei trenta secondi finali o giù di lì. Però la storia raccontata era complessivamente molto efficace, sapeva coinvolgerti, sorprendenti, lasciarti col fiato sospeso dopo un cliffhanger o strapparti un verso di stupore dopo un colpo di scena ben congeniato. Il finale della seconda stagione o l'assedio di Parigi nella terza da soli valgono tutta la serie, l'ho sempre detto e sempre lo sosterrò.
Poi qualcosa si è rotto. E' troppo facile dire che la colpa sia la morte di Ragnar, che ha privato la serie di un protagonista carismatico: Vikings è sempre stata una serie corale e aveva tutti gli strumenti e le potenzialità per andare avanti in maniera soddisfacente con i personaggi che aveva ancora a disposizione, oltre che con le nuove leve introdotte nella quarta stagione. A un certo punto Hirst non ha saputo più che pesci pigliare e la storia si è incartata su se stessa, su meccanismi sempre uguali e ripetuti fino allo sfinimento: lotte per il potere dai tempi dilatatissimi per far avvenire lo scontro finale solo nell'ultimo episodio; battaglie sempre più inverosimili dal punto di vista della strategia e sempre più ricche di pipponi onirici; sottotrame sentimentali e sessuali in cui tutti tradiscono tutti (la povera Torvi avrà cambiato marito almeno tre-quattro volte) e c'è stato spazio anche per un po' di sadomaso medievale. Persino gli inserti mistici, religiosi e culturali, che nelle prime stagioni erano generalmente ben accetti, qui sono diventati pesanti riempitivi per aggiungere minutaggio e nulla di più. Si sono moltiplicate anche le licenze storiche, e benché io non sia fissato con la fedeltà precisa agli eventi storici, pure ho storto il naso di fronte al progressivo allontanamento della serie dalla realtà.
Già la quarta stagione non brillava più quanto le precedenti. L'inserimento di un personaggio inutile come la cinesina, l'eccessivo indulgere nella rappresentazione della decadenza fisica e interiore di Ragnar (va bene una scena, va bene due, ma già tre sono una rottura di zebedei), una generale lentezza nel portare avanti la narrazione hanno inquinato non poco la stagione che a mio avviso doveva essere la più importante di tutta la serie, quella della caduta e della morte di Ragnar. Ciò non ha impedito di dar vita a uno degli episodi più belli della serie, quello in cui appunto Ragnar muore nella fossa dei serpenti.
Come se non bastasse, dalla quarta stagione in poi i vecchi personaggi sono diventati figurine senza spessore, anche se hanno conservato un po' del loro carisma finché non sono stati fatti fuori uno a uno. Invece i nuovi personaggi (figli di Ragnar in primis, ma anche i fratelli Bellachioma e i principini wessexiani) sono stati gestiti malissimo, rendendoli monodimensionali nel migliore dei casi, scostanti e schizofrenici nel peggiore. Se consideriamo che un nuovo personaggio della quinta stagione è stato pompato tantissimo dalla pubblicità, anche in virtù dell'attore che lo ha interpretato, per poi rivelarsi completamente superfluo nella trama, si ha un'idea completa dello sfacelo di cui mi lamento.
Eppure, Vikings ha saputo stupirmi con la sesta stagione. Proprio quando avevo perso ogni speranza e mi ero rassegnato all'idea di continuare la visione solo per non lasciare a metà la serie (sono uno che odia droppare un prodotto, per quanto brutto possa essere), la qualità è tornata a salire. Beninteso, la sesta stagione non è un capolavoro come le prime tre, ma ha risollevato Vikings dall'obbrobbrio della quinta e di parte della quarta stagione. Allargare gli orizzonti geografici, con l'inclusione dei Rus' di Kiev e poi della Groenlandia e del Vinland, ha sicuramente aiutato, ma ho trovato provvidenziale anche l'inserimento di due nuovi personaggi del calibro di Oleg e di Ohthere, quest'ultimo interpretato da Ray Stevenson che evidentemente ci ha preso gusto ad andare per mare (in Black Sails era Barbanera, pace all'anima sua).
Tuttavia, non posso dire che la sesta stagione sia pienamente riuscita. Vikings è caduto ancora una volta nei soliti errori, ci ha rifilato ancora una volta le solite vicende da soap opera norrena, non è riuscita a darsi un equilibrio conferendo troppo spazio a personaggi insipidi e troppo poco a chi avrebbe meritato un maggiore approfondimento. Essendo la stagione finale, inoltre, ha dovuto concludere il percorso di tutti i protagonisti e anche qui non sono mancate le delusioni. Dopo tante puntate incentrate sulla lotta per il potere a Kattegat, hanno riesumato un vecchio scenario di guerra che sembrava concluso per sempre e in quattro e quattr'otto hanno messo in piedi un ultimo conflitto che, a conti fatti, serviva solo per togliere di mezzo un paio di protagonisti perché sì, dovevano morire. E intanto il trono di Kattegat è andato a una tizia che stava lì per caso ed era stata introdotta solo in questa stagione, per farvi capire quanto sia raffazzonata la scrittura.
L'unica parte che ho davvero apprezzato, nel finale, è stata quella legata al Vinland. Sarà che è un argomento ancora poco trattato e poco noto nella cultura popolare, sarà che in questo frangente è tornato un vecchio personaggio che ho adorato e che speravo tanto di rivedere, sarà che l'insediamento norreno nel Nuovo Mondo ha un senso di perfetta chiusura che altre storylines non hanno, sta di fatto che ho apprezzato la gestione di questo filone.
Con Vikings se ne va una serie che ho amato, poi odiato, poi di nuovo quasi amato, ma che alla fine mi ha lasciato l'amaro in bocca, la consapevolezza che si sarebbe potuto fare molto meglio. Non provo la stessa delusione atroce che mi provocò lo sviluppo finale di Naruto, non provo lo stesso odio viscerale che mi scatenò l'orrendo finale di Game of Thrones (e in generale le stagioni dalla quinta in poi), ma non posso nemmeno dire di essere contento. Anzi, un po' mi dispiace che non ci saranno altre stagioni, perché forse qualche personaggio avrebbe meritato uno sviluppo ulteriore.
Adesso non resta che attendere lo spinoff-sequel-checavolosarà Valhalla, in cui già si parla di Guglielmo il Conquistatore e Haraldr lo Spietato, due personaggi storici che adoro e che hanno avuto delle vite davvero incredibili. Peccato che non si accenni anche ai Normanni del Sud Italia, quelli meriterebbero davvero una serie tutta loro.

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