sabato 9 gennaio 2021

In Goddamn We Trust

DISCLAIMER: L’autore si discosta CON FERMEZZA da qualsiasi idea politica espressa nel racconto, che resta un’opera di fantasia.

Il poliziotto giace a terra nel suo stesso sangue. Apre la bocca ed emette un guaito di dolore misto a pezzi di denti rotti.
Tra le mani reggo un busto del dodicesimo presidente, Zacharias Carpenter. Il marmo candido è sporco di rosso sulle labbra, in corrispondenza del punto che ha colpito il volto dell’agente.
Uno sparo esplode a poca distanza da me e il poliziotto a terra getta la testa indietro, colpito mortalmente al cranio.

Mi volto verso il mio confratello rivoluzionario, lui mi sorride con soddisfazione. E’ così bello nella sua aria da crociato. In verità siamo tutti soldati della crociata per la democrazia, guerrieri santi che si oppongono ai brogli elettorali e agli inganni dei libertari.
Gli occhi del poliziotto, sgranati nell’istante della morte, mi fissano come se cercassero un aiuto in extremis. Ma quell’aiuto non arriva. Il sangue gocciola dal buco sulla fronte lungo il volto dell’agente. Scavalco il corpo ancora caldo.
L’aquila bicefala ci fissa tutti con un’espressione che non saprei dire se di biasimo o di orgoglio per quanto stiamo facendo. Ma non saprei dire nemmeno se quella sia l’aquila dei Libertari o dei Conservatori.


Tutto è cominciato appena un’ora fa, quando il Presidente ha parlato.
Ha chiamato all’azione tutti noi, i Suoi fedeli sostenitori.
Ha detto che la nostra amata democrazia è messa in pericolo da un usurpatore non eletto dal popolo.
Ha urlato, splendente e impavido come un profeta dell’Antico Testamento, che il seme della tirannia ha messo radici nel nostro paese con gli ultimi brogli elettorali.
Io le ho sentite, quelle parole. Le ho bevute con avidità, man mano che gocciolavano dalle Sue labbra. Ero solo uno tra migliaia, in piedi ad ascoltare il Suo ultimo comizio a Capitol City, eppure era come se il Presidente parlasse a me direttamente, a me soltanto.
«Siate come i prodi padri della Patria che dodici ventenni e quattro anni fa si ribellarono ai perfidi sfruttatori della madrepatria albionica, sapendo che solo così potevano dar vita a una nuova nazione, concepita nella libertà e votata alla potenza.»
Quasi mi hanno commosso, quelle parole. Ho frenato le lacrime solo perché un uomo degno di questo nome non le versa.
«I nostri avi versarono il sangue perché nascesse la nostra gloriosa Vesperia. Adesso chiedo a voi di fare altrettanto. Non è chinando il capo agli ingiusti maneggi del Partito Libertario, né accettando George Burden come nostro presidente che onoreremo quel sacrificio. Solo marciando uniti verso il Campidoglio dimostreremo che la nazione da loro creata può resistere ancora, nei secoli e nei secoli, fedele ai principi che l’hanno ispirata. Non siate deboli, fratelli! Siate forti e compatti! Insieme ci riprenderemo questo Paese!»
Le ho amate con tutto me stesso, quelle parole. Così come ho amato il Presidente, che ci ha ricordato quanto forte sia il nostro spirito, quanto grande sia il nostro orgoglio. Risvegliando le nostre coscienze sopite, ci ha chiamato a una santa crociata in nome della democrazia.
Democrazia. Parola troppo spesso insultata e calpestata nel fango da otto anni di governo libertario. Il partito che si fregia della parola libertà finanche nel proprio nome è solo una pallida ombra della tempra d’acciaio dei nostri progenitori. Hanno indebolito la nazione riempiendoci la testa di parole blasfeme come assistenzialismo, ampliamento della copertura sanitaria, diritti ai gay, recovery act, lotta al riscaldamento globale.
Molti fratelli dallo spirito più debole hanno ceduto. Io stesso sono stato sul punto di dar ragione a questi porci borghesi e alle loro mani tese per aiutare gli scarti della società. Ho dubitato delle mie convinzioni e delle mie ideologie, mi sono detto addirittura che forse il darwinismo sociale non era la vera chiave del successo di Vesperia.
Ho dubitato ancora e ancora, e di questo chiedo perdono a Te, Presidente! Era necessaria la Tua venuta perché tutti noi capissimo che è esistita ed esiste una sola strada per la grandezza: sfrondare i rami malati, disfarsi di ciò che è marcio e improduttivo, venerare la forza sopra ogni cosa. Del pesce non si mangia tutto, si buttano via le interiora. E il leone non è il re della savana perché è gentile o perché assiste i suoi simili in difficoltà, ma perché è spietato. Né la debolezza né l’indulgenza hanno fatto grandi Babilonia, Roma e l’impero di Gengis Khan!


Abbiamo marciato tutti insieme, fianco a fianco, proprio come la falange di opliti che il Presidente evocava nel Suo discorso.
Noi siamo la legione che riporterà alla gloria questo Paese.
Noi siamo gli eletti.
Noi saremo anche i martiri, se necessario.
Adesso siamo in centinaia nell’edificio, in migliaia. Come una fiumana di rabbia, di risentimento e di sete di giustizia ci siamo riversati all’interno. Dinanzi alla nostra marea i cancelli si sono piegati, le difese della falsa democrazia di deboli e di corrotti si è dovuta inchinare.
I servi del potere corrotto che hanno provato a fermarci giacciono a terra, morti o moribondi. Anche qualcuno dei nostri è caduto, ma a lui sarà riservato il regno dei cieli, ne sono sicuro, perché è morto per l’autentica libertà.
Uno sparo. Poi un altro. E un altro ancora. C’è gente che ci sta prendendo gusto ad ammazzare i poliziotti. Forse vuole finire in prima pagina, domani.
A me non frega niente della gloria, di andare in televisione e di essere su tutti i giornali. Mi basta che la democrazia sia vendicata e ristabilita. Mi basta che i porci libertari facciano la fine che meritano e che il nostro unico e vero Presidente sieda nuovamente sul suo scranno.
Aux armes citoyens! Marchons, oui marchons!
L’aula del Senato è ormai in mano nostra. Calpestiamo i corpi e il sangue dei poliziotti che hanno provato a fermarci e sventoliamo le bandiere a stelle e strisce della gloriosa nazione di Vesperia. È la nuova Gettysburg, e ancora una volta Dio ha dato la vittoria a chi la meritava.
«Fratelli. Sorelle. Figli e figlie di Vesperia.»
Il Presidente si erge dietro il tavolo del Congresso, quello da cui ha parlato già decine di volte. Si è precipitato da noi appena è stato certo che l’edificio fosse in mano nostra.
«I cani e i vigliacchi sono fuggiti, il Campidoglio è nostro. Ma non fatevi illusioni, amici: la guerra è lontana dall’essere vinta. Voi siete forti, siete uniti, siete sorretti dalla fiamma della libertà e della giustizia, ma dovete perseverare. Voi non combattete per un uomo. Voi combattete per un ideale, e per Dio, e per questa gloriosa nazione!» Si levano applausi, urla di approvazione, l’inno nazionale, i «Viva il nostro Presidente! Sempre sia lodato! Renderemo Vesperia ancora una volta grande!».
Il Presidente aspetta che il furore dell’acclamazione scemi e riprende a parlare: «Figli di questa gloriosa nazione, io sono soltanto un uomo, ma voi siete la vera forza di Vesperia. Io posso darvi il mio ardore, la mia passione, ogni fibra del mio essere, ma siete voi che dovete portare avanti la rivoluzione.»
Un altro giro di ovazione scuote la sala occupata. Anche io mi unisco agli schiamazzi, lascio cadere a terra con noncuranza il busto che ho trafugato e batto le mani una contro l’altra, con veemenza, fino a farmi male.
Le parole del Presidente riecheggiano nella mia testa. Vi do il mio ardore, la mia passione, ogni fibra del mio essere. Ogni fibra. Del mio corpo, intenderà dire. Sì, dev’essere così. Come Cristo ha dato il proprio corpo agli apostoli e a coloro che credevano in lui, così ci sta invitando a fare il nostro Presidente. Vuole essere il nuovo Cristo di questa nazione allo sbando.
Mi guardo attorno. La gente intorno a me è ebbra di eccitazione e di entusiasmo. I cori scandiscono «PRE-SI-DEN-TE! VA-LEN-TI-NE!». E’ un’esaltazione contagiosa, che ci fa sentire tutti uniti in un unico spirito. Potrei aprir bocca e scegliendo con cura le parole spingere questa massa di fedeli a compiere qualsiasi cosa.
«Fratelli! Sorelle! Il Presidente ha parlato, vuole che noi, i suoi figli prediletti, portiamo avanti la sua lotta anche quando non ci sarà più. Egli ci ha indicato la via, ma sta a noi percorrerla.»
Altri scrosci di applausi, altre urla di approvazione. Qualcuno mi benedice con un «Amen fratello» pronunciato a pieni polmoni.
Mi umetto le labbra con un movimento nervoso della lingua.
«Fratelli» riprendo, «qui non si tratta più di combattere un falso presidente che ha imbrogliato per farsi eleggere. Qui si tratta di difendere un ideale, il più alto degli ideali anzi. Presidente» mi volto nella sua direzione, «Lei ci ha indicato la strada da percorrere. E noi la percorreremo. Con il Suo sangue e la Sua carne porteremo a termine il gravoso compito. Con il Suo sangue, sì, e con la Sua carne. Come Cristo sulla croce.»
Un boato sommerge le mie ultime parole. La folla è in visibilio.


Perché sgrana gli occhi, Presidente? Perché indietreggia verso l’uscita? I Suoi discepoli stanno venendo ad abbracciarla, a nutrirsi della Sua forza. Perché ha paura di noi? Non ha forse detto che bisogna rendere nuovamente grande questa nazione?
Oh, adesso ci supplica di fermarci. Ci minaccia di sbatterci in qualche prigione federale che puzza di piscio e di morte, una volta che sarà tornato al potere. Ma noi non ce la beviamo. Non può averci adunati qui solo per rimanere attaccato a una poltrona, vero? Questo è quello che fanno i cani libertari, George Burden e la sua cricca di porci arricchiti. Lei ci ha adunato qui per risvegliare le nostre coscienze e per concederci la Sua forza, in un estremo atto di cannibalismo democratico.
Il Suo sacrificio non sarà dimenticato, Presidente. E nemmeno il sapore del suo braccio, in cui affondo i denti ingordo.
Il sangue ancora caldo di Donald Valentine ruscella lungo il mio mento e la mia gola. La Sua forza scorrerà in me da oggi in poi e mi renderà un cittadino migliore, un patriota migliore.
Renderemo nuovamente grande gli Stati Uniti di Vesperia, signor Presidente.



Nessun commento:

Posta un commento