Gli Osservatori erano la razza più progredita mai esistita, o almeno amavano pensarla così.
Frutto di un’evoluzione biologica protrattasi per sei miliardi e mezzo di cicli, erano arrivati al punto da ritirarsi a vivere in una singolarità spaziotemporale subdimensionale posta nell’interstizio tra due brane cosmiche, dove non si invecchiava e non si moriva e dove, pur avendo mantenuto la propria fisicità, non avevano bisogno di nutrirsi o di bere. Solo di tanto in tanto dovevano chiudere gli occhi per riposare, perché i loro corpi fisici non avevano energia infinita. Da lì potevano volgere il proprio sguardo onnisciente verso qualsiasi punto dell’universo d’origine, anche se la loro visione era limitata al presente e non poteva né scavare nel passato né avventurarsi nel futuro, e così avevano scoperto l’unico passatempo capace di combattere la noia di un’esistenza immortale e perfetta: osservare la nascita e lo sviluppo di innumerevoli creature inferiori, dallo stadio unicellulare fino alla civiltà interstellare.
Uno di questi Osservatori, X’rq’un’Tul’Mah’ah, aveva scoperto per caso un pianeta particolarmente promettente in un braccio della galassia n. 80005611203, il terzo orbitante intorno una piccola ma stabile stella gialla etichettata con la sigla S-2152400001. All’epoca della scoperta quel mondo aveva appena visto la comparsa dei primi amminoacidi carboniosi, ma nell’arco di miliardi di cicli (che per l’immortale Osservatore non erano nulla) i suoi oceani di acqua liquida furono popolati da esseri viventi sempre più grandi e complessi: alcuni capaci di nuotare liberamente, altri fissi sul fondale, altri ancora trasportati dolcemente dalle onde e dalle correnti.
A un certo punto, alcuni di quegli animali scoprirono la via per colonizzare la terraferma, sviluppando sistemi per respirare l’ossigeno direttamente dall’atmosfera e per mantenere l’umidità corporea lontano dagli specchi d’acqua, nonché organi locomotori per muoversi nel nuovo ambiente. I preferiti di X’rq erano i bestioni squamati e a volte anche piumati che per un certo periodo di tempo dominarono quasi ogni ambiente terrestre; ma proprio sul più bello un maledetto asteroide impattò col pianeta e innescò una serie di cataclismi fisici che portarono alla loro scomparsa. X’rq era sul punto di abbandonare la visione, quando si rese conto che anche i loro successori, creature altrettanto strane e adattive coperte di pelo, erano un degno spettacolo. E poi il suo sesto senso di Osservatore gli diceva che il meglio doveva ancora venire.
Qualche altro milione di cicli bastò perché sul pianeta comparisse finalmente una specie intelligente. L’Osservatore rimase stupito dal miracolo evolutivo che si consumava sotto i suoi occhi: creaturine piccole e imbelli, prive di artigli, di becchi, di zanne o di ali, coperte solo parzialmente di pelo e nemmeno troppo veloci o forti fisicamente, scoprirono come manipolare pietre e legno, come accendere fuochi, come coprirsi usando le pelli degli altri animali, come controllare la nascita e la crescita degli organismi vegetali. E bastò ancora meno tempo perché quei bipedi glabri erigessero costruzioni, sviluppassero un linguaggio complesso, mandassero oggetti in orbita intorno al loro pianeta e persino sui corpi celesti più vicini. Nell’arco di qualche altro millennio avrebbero potuto colonizzare anche altri sistemi stellari!
X’rq finì così per appassionarsi alla storia di G-80005611203-S-2152400001-P-3 al punto da trascurare persino il riposo. Le palpebre cominciavano a farsi pesanti, ma ogni volta che rischiavano di chiudersi si ripeteva: «Guarderò ancora un po’ e poi basta… solo un altro paio di secoli e poi mi fermo…» e si sforzava di rimanere sveglio e vigile, per non perdersi nessun dettaglio. Era così preso da quell’epopea biologica che non si era accorto del germe autodistruttivo che i suoi beniamini portavano con sé fin da quando avevano mosso i loro primi passi nelle savane dell’Africa. Non lo avevano insospettito l’aumento dell’inquinamento, la scoperta di nuove e più letali armi atomiche, l’ascesa dei fondamentalismi, l’aumento della disparità tra ricchi e poveri, la scomparsa graduale delle altre specie del pianeta.
«Sicuramente progredendo troveranno una soluzione a tutti questi problemi» si era detto.
A un certo punto, il peso del sonno fu troppo e X’rq chiuse gli occhi. Dopo una manciata di secondi li riaprì, solo per constatare con delusione che il globo un tempo rigoglioso e pieno di vita si era trasformato in una landa desolata, con alti livelli radioattivi e un effetto serra ormai incontrollabile. Erano sopravvissuti a malapena i batteri e i virus, ma le condizioni in cui versava ora il pianeta difficilmente avrebbero reso possibile un altro miracolo evolutivo come quello appena mandato all’aria.
Deluso, X’rq’un’Tul’Mah’ah volse il suo sguardo altrove. Forse il prossimo pianeta gli avrebbe dato maggiori soddisfazioni. Del resto, non era difficile fare meglio della specie che si era appena estinta.
sabato 30 gennaio 2021
Gli Osservatori
mercoledì 27 gennaio 2021
Piccoli geni del male crescono
lunedì 18 gennaio 2021
Nel fragore d'un silenzio d'argento
La notte mi sorprende
ancora.
Sbadigliando
la luna sorge pigra
con le sue corde di luce.
Attendo i ricordi.
L’animo mio gorgoglia:
le onde s’intrecciano,
il sangue freme,
il cuore è vento e pioggia e brina.
S’innalzano in me
esplosioni di suoni,
emozioni,
passioni.
E vivo sogni
dove risplendono
frammenti
iridati di speranza
levigati
dal disinganno della vita.
S’accende
un canto lontano,
una nota trafiggente.
Poi nulla.
Tutto rapido tramonta.
Incendi dell’anima
sulla stoffa della memoria
divampano
pensando a te,
femminea dionea divoratrice di amori.
E pensando
all’oscuro
splendore dei tuoi occhi d’ossidiana
l’anima si perde e langue
e la mente ripercorre
con abbandono adorante
con le mani – martelli di agili dita –
i sentieri
del tuo desiderio.
Raccontami
ancora una volta
della tua solitudine
e io della mia,
e insieme perdiamoci
in calde memorie
e oscuri palpiti dell’animo.
Ma tu non sei più qui.
E il coniglio lunare
mi guarda
da lassù
beato come un bonzo
atarassico nel Nirvana del cosmo,
mentre io
deliro
inverecondo
nel cuore della notte
bruciando
mormorando
all’infinito di stelle e mondi
i lacerti di una reminescenza.
Nel fragore d'un silenzio d’argento
il mio urlo silenzioso
si leva
dal cuore del mondo
e pellegrino va
sui sentieri della memoria.
Attendo i ricordi.
Singhiozzando
un’altra Selene
si congeda dal suo Endimione
e si fa Ecate
nell’eclisse
sempiterna della notte primigenia.
La notte mi sorprende.
mercoledì 13 gennaio 2021
L'uovo cosmico
Da miliardi di miliardi di anni l’uovo cosmico vagava nel freddo Universo.
Non aveva occhi, eppure osservava tutti i vacui drammi del cosmo. Aveva visto un numero incalcolabile di specie evolversi, prosperare, estinguersi in lampi di autodistruzione o sotto l’effetto di immani catastrofi astronomiche.
Ma tutto ciò lo aveva annoiato a morte. Per lunghi eoni nulla lo aveva convinto a schiudersi.
Solo dopo innumerevoli ere decise di nascere, più per noia che per convinzione.
domenica 10 gennaio 2021
Recensioni e opinioni: Vikings
Ieri ho finalmente concluso la visione della seconda parte della sesta stagione di Vikings.
Amazon Prime Video ha avuto la brillante idea di rilasciare tutti i dieci episodi conclusivi in una botta sola, perché noi recensori di serie televisive non siamo già abbastanza incasinati con le uscite settimanali e serie rilasciate in blocco da Netflix, no, abbiamo bisogno di ulteriori binge watching. Comunque sia, sono riuscito ad arrivare fino alla fine e mi sento in dovere di tirare le somme.
Anche a livello di musiche, reputo la colonna sonora di Vikings un'autentica perla: evocativa, suggestiva, profonda, impreziosita dalle canzoni dei Wardruna. Probabilmente agli Emmy Awards avrebbe meritato qualche riconoscimento in più.
E poi Vikings aveva un ottimo cast. Siamo sinceri, la serie non avrebbe avuto molto del suo fascino senza l'interpretazione di Travis Fimmel, uno che prima faceva il modello e su cui non avresti scommesso nemmeno un centesimo, ma che è riuscito a dar vita a un personaggio davvero complesso e convincente. Certe faccine stralunate che faceva nei panni di Ragnar non le avrebbe fatte nessuno, davvero. C'erano Katheryn Winnick, Gustaf Skarsgård, Clive Standen, George Blagden, Linus Roache, Gabriel Byrne, tutti davvero convincenti. Certo, condividevano la scena con un certo Alexander Ludwig che sta alla recitazione come Le bizzarre avventure di JoJo stanno alla normalità, ma era uno dei pochi nei nel cast.
Le prime stagioni, dicevo, sono indimenticabili. Non erano perfette, c'erano personaggi meno valorizzati di altri, passaggi troppo sbrigativi o, al contrario, troppo tirati per le lunghe e qualche calo di ritmo davvero fastidioso. Ho ancora gli incubi al ricordo della puntata al tempio di Uppsala in cui per tre quarti d'ora mostrano un documentario sulla spiritualità norrena, non una serie televisiva, e l'unico avanzamento di trama degno di nota avviene nei trenta secondi finali o giù di lì. Però la storia raccontata era complessivamente molto efficace, sapeva coinvolgerti, sorprendenti, lasciarti col fiato sospeso dopo un cliffhanger o strapparti un verso di stupore dopo un colpo di scena ben congeniato. Il finale della seconda stagione o l'assedio di Parigi nella terza da soli valgono tutta la serie, l'ho sempre detto e sempre lo sosterrò.
Poi qualcosa si è rotto. E' troppo facile dire che la colpa sia la morte di Ragnar, che ha privato la serie di un protagonista carismatico: Vikings è sempre stata una serie corale e aveva tutti gli strumenti e le potenzialità per andare avanti in maniera soddisfacente con i personaggi che aveva ancora a disposizione, oltre che con le nuove leve introdotte nella quarta stagione. A un certo punto Hirst non ha saputo più che pesci pigliare e la storia si è incartata su se stessa, su meccanismi sempre uguali e ripetuti fino allo sfinimento: lotte per il potere dai tempi dilatatissimi per far avvenire lo scontro finale solo nell'ultimo episodio; battaglie sempre più inverosimili dal punto di vista della strategia e sempre più ricche di pipponi onirici; sottotrame sentimentali e sessuali in cui tutti tradiscono tutti (la povera Torvi avrà cambiato marito almeno tre-quattro volte) e c'è stato spazio anche per un po' di sadomaso medievale. Persino gli inserti mistici, religiosi e culturali, che nelle prime stagioni erano generalmente ben accetti, qui sono diventati pesanti riempitivi per aggiungere minutaggio e nulla di più. Si sono moltiplicate anche le licenze storiche, e benché io non sia fissato con la fedeltà precisa agli eventi storici, pure ho storto il naso di fronte al progressivo allontanamento della serie dalla realtà.
Come se non bastasse, dalla quarta stagione in poi i vecchi personaggi sono diventati figurine senza spessore, anche se hanno conservato un po' del loro carisma finché non sono stati fatti fuori uno a uno. Invece i nuovi personaggi (figli di Ragnar in primis, ma anche i fratelli Bellachioma e i principini wessexiani) sono stati gestiti malissimo, rendendoli monodimensionali nel migliore dei casi, scostanti e schizofrenici nel peggiore. Se consideriamo che un nuovo personaggio della quinta stagione è stato pompato tantissimo dalla pubblicità, anche in virtù dell'attore che lo ha interpretato, per poi rivelarsi completamente superfluo nella trama, si ha un'idea completa dello sfacelo di cui mi lamento.
Eppure, Vikings ha saputo stupirmi con la sesta stagione. Proprio quando avevo perso ogni speranza e mi ero rassegnato all'idea di continuare la visione solo per non lasciare a metà la serie (sono uno che odia droppare un prodotto, per quanto brutto possa essere), la qualità è tornata a salire. Beninteso, la sesta stagione non è un capolavoro come le prime tre, ma ha risollevato Vikings dall'obbrobbrio della quinta e di parte della quarta stagione. Allargare gli orizzonti geografici, con l'inclusione dei Rus' di Kiev e poi della Groenlandia e del Vinland, ha sicuramente aiutato, ma ho trovato provvidenziale anche l'inserimento di due nuovi personaggi del calibro di Oleg e di Ohthere, quest'ultimo interpretato da Ray Stevenson che evidentemente ci ha preso gusto ad andare per mare (in Black Sails era Barbanera, pace all'anima sua).
Tuttavia, non posso dire che la sesta stagione sia pienamente riuscita. Vikings è caduto ancora una volta nei soliti errori, ci ha rifilato ancora una volta le solite vicende da soap opera norrena, non è riuscita a darsi un equilibrio conferendo troppo spazio a personaggi insipidi e troppo poco a chi avrebbe meritato un maggiore approfondimento. Essendo la stagione finale, inoltre, ha dovuto concludere il percorso di tutti i protagonisti e anche qui non sono mancate le delusioni. Dopo tante puntate incentrate sulla lotta per il potere a Kattegat, hanno riesumato un vecchio scenario di guerra che sembrava concluso per sempre e in quattro e quattr'otto hanno messo in piedi un ultimo conflitto che, a conti fatti, serviva solo per togliere di mezzo un paio di protagonisti perché sì, dovevano morire. E intanto il trono di Kattegat è andato a una tizia che stava lì per caso ed era stata introdotta solo in questa stagione, per farvi capire quanto sia raffazzonata la scrittura.
L'unica parte che ho davvero apprezzato, nel finale, è stata quella legata al Vinland. Sarà che è un argomento ancora poco trattato e poco noto nella cultura popolare, sarà che in questo frangente è tornato un vecchio personaggio che ho adorato e che speravo tanto di rivedere, sarà che l'insediamento norreno nel Nuovo Mondo ha un senso di perfetta chiusura che altre storylines non hanno, sta di fatto che ho apprezzato la gestione di questo filone.
Con Vikings se ne va una serie che ho amato, poi odiato, poi di nuovo quasi amato, ma che alla fine mi ha lasciato l'amaro in bocca, la consapevolezza che si sarebbe potuto fare molto meglio. Non provo la stessa delusione atroce che mi provocò lo sviluppo finale di Naruto, non provo lo stesso odio viscerale che mi scatenò l'orrendo finale di Game of Thrones (e in generale le stagioni dalla quinta in poi), ma non posso nemmeno dire di essere contento. Anzi, un po' mi dispiace che non ci saranno altre stagioni, perché forse qualche personaggio avrebbe meritato uno sviluppo ulteriore.
Adesso non resta che attendere lo spinoff-sequel-checavolosarà Valhalla, in cui già si parla di Guglielmo il Conquistatore e Haraldr lo Spietato, due personaggi storici che adoro e che hanno avuto delle vite davvero incredibili. Peccato che non si accenni anche ai Normanni del Sud Italia, quelli meriterebbero davvero una serie tutta loro.
sabato 9 gennaio 2021
In Goddamn We Trust
DISCLAIMER: L’autore si discosta CON FERMEZZA da qualsiasi idea politica espressa nel racconto, che resta un’opera di fantasia.
Il poliziotto giace a terra nel suo stesso sangue. Apre la bocca ed emette un guaito di dolore misto a pezzi di denti rotti.
Tra le mani reggo un busto del dodicesimo presidente, Zacharias Carpenter. Il marmo candido è sporco di rosso sulle labbra, in corrispondenza del punto che ha colpito il volto dell’agente.
Uno sparo esplode a poca distanza da me e il poliziotto a terra getta la testa indietro, colpito mortalmente al cranio.
Gli occhi del poliziotto, sgranati nell’istante della morte, mi fissano come se cercassero un aiuto in extremis. Ma quell’aiuto non arriva. Il sangue gocciola dal buco sulla fronte lungo il volto dell’agente. Scavalco il corpo ancora caldo.
L’aquila bicefala ci fissa tutti con un’espressione che non saprei dire se di biasimo o di orgoglio per quanto stiamo facendo. Ma non saprei dire nemmeno se quella sia l’aquila dei Libertari o dei Conservatori.
Tutto è cominciato appena un’ora fa, quando il Presidente ha parlato.
Ha chiamato all’azione tutti noi, i Suoi fedeli sostenitori.
Ha detto che la nostra amata democrazia è messa in pericolo da un usurpatore non eletto dal popolo.
Ha urlato, splendente e impavido come un profeta dell’Antico Testamento, che il seme della tirannia ha messo radici nel nostro paese con gli ultimi brogli elettorali.
Io le ho sentite, quelle parole. Le ho bevute con avidità, man mano che gocciolavano dalle Sue labbra. Ero solo uno tra migliaia, in piedi ad ascoltare il Suo ultimo comizio a Capitol City, eppure era come se il Presidente parlasse a me direttamente, a me soltanto.
«Siate come i prodi padri della Patria che dodici ventenni e quattro anni fa si ribellarono ai perfidi sfruttatori della madrepatria albionica, sapendo che solo così potevano dar vita a una nuova nazione, concepita nella libertà e votata alla potenza.»
Quasi mi hanno commosso, quelle parole. Ho frenato le lacrime solo perché un uomo degno di questo nome non le versa.
«I nostri avi versarono il sangue perché nascesse la nostra gloriosa Vesperia. Adesso chiedo a voi di fare altrettanto. Non è chinando il capo agli ingiusti maneggi del Partito Libertario, né accettando George Burden come nostro presidente che onoreremo quel sacrificio. Solo marciando uniti verso il Campidoglio dimostreremo che la nazione da loro creata può resistere ancora, nei secoli e nei secoli, fedele ai principi che l’hanno ispirata. Non siate deboli, fratelli! Siate forti e compatti! Insieme ci riprenderemo questo Paese!»
Le ho amate con tutto me stesso, quelle parole. Così come ho amato il Presidente, che ci ha ricordato quanto forte sia il nostro spirito, quanto grande sia il nostro orgoglio. Risvegliando le nostre coscienze sopite, ci ha chiamato a una santa crociata in nome della democrazia.
Democrazia. Parola troppo spesso insultata e calpestata nel fango da otto anni di governo libertario. Il partito che si fregia della parola libertà finanche nel proprio nome è solo una pallida ombra della tempra d’acciaio dei nostri progenitori. Hanno indebolito la nazione riempiendoci la testa di parole blasfeme come assistenzialismo, ampliamento della copertura sanitaria, diritti ai gay, recovery act, lotta al riscaldamento globale.
Molti fratelli dallo spirito più debole hanno ceduto. Io stesso sono stato sul punto di dar ragione a questi porci borghesi e alle loro mani tese per aiutare gli scarti della società. Ho dubitato delle mie convinzioni e delle mie ideologie, mi sono detto addirittura che forse il darwinismo sociale non era la vera chiave del successo di Vesperia.
Ho dubitato ancora e ancora, e di questo chiedo perdono a Te, Presidente! Era necessaria la Tua venuta perché tutti noi capissimo che è esistita ed esiste una sola strada per la grandezza: sfrondare i rami malati, disfarsi di ciò che è marcio e improduttivo, venerare la forza sopra ogni cosa. Del pesce non si mangia tutto, si buttano via le interiora. E il leone non è il re della savana perché è gentile o perché assiste i suoi simili in difficoltà, ma perché è spietato. Né la debolezza né l’indulgenza hanno fatto grandi Babilonia, Roma e l’impero di Gengis Khan!
Abbiamo marciato tutti insieme, fianco a fianco, proprio come la falange di opliti che il Presidente evocava nel Suo discorso.
Noi siamo la legione che riporterà alla gloria questo Paese.
Noi siamo gli eletti.
Noi saremo anche i martiri, se necessario.
Adesso siamo in centinaia nell’edificio, in migliaia. Come una fiumana di rabbia, di risentimento e di sete di giustizia ci siamo riversati all’interno. Dinanzi alla nostra marea i cancelli si sono piegati, le difese della falsa democrazia di deboli e di corrotti si è dovuta inchinare.
I servi del potere corrotto che hanno provato a fermarci giacciono a terra, morti o moribondi. Anche qualcuno dei nostri è caduto, ma a lui sarà riservato il regno dei cieli, ne sono sicuro, perché è morto per l’autentica libertà.
Uno sparo. Poi un altro. E un altro ancora. C’è gente che ci sta prendendo gusto ad ammazzare i poliziotti. Forse vuole finire in prima pagina, domani.
A me non frega niente della gloria, di andare in televisione e di essere su tutti i giornali. Mi basta che la democrazia sia vendicata e ristabilita. Mi basta che i porci libertari facciano la fine che meritano e che il nostro unico e vero Presidente sieda nuovamente sul suo scranno.
Aux armes citoyens! Marchons, oui marchons!
L’aula del Senato è ormai in mano nostra. Calpestiamo i corpi e il sangue dei poliziotti che hanno provato a fermarci e sventoliamo le bandiere a stelle e strisce della gloriosa nazione di Vesperia. È la nuova Gettysburg, e ancora una volta Dio ha dato la vittoria a chi la meritava.
«Fratelli. Sorelle. Figli e figlie di Vesperia.»
Il Presidente si erge dietro il tavolo del Congresso, quello da cui ha parlato già decine di volte. Si è precipitato da noi appena è stato certo che l’edificio fosse in mano nostra.
«I cani e i vigliacchi sono fuggiti, il Campidoglio è nostro. Ma non fatevi illusioni, amici: la guerra è lontana dall’essere vinta. Voi siete forti, siete uniti, siete sorretti dalla fiamma della libertà e della giustizia, ma dovete perseverare. Voi non combattete per un uomo. Voi combattete per un ideale, e per Dio, e per questa gloriosa nazione!» Si levano applausi, urla di approvazione, l’inno nazionale, i «Viva il nostro Presidente! Sempre sia lodato! Renderemo Vesperia ancora una volta grande!».
Il Presidente aspetta che il furore dell’acclamazione scemi e riprende a parlare: «Figli di questa gloriosa nazione, io sono soltanto un uomo, ma voi siete la vera forza di Vesperia. Io posso darvi il mio ardore, la mia passione, ogni fibra del mio essere, ma siete voi che dovete portare avanti la rivoluzione.»
Un altro giro di ovazione scuote la sala occupata. Anche io mi unisco agli schiamazzi, lascio cadere a terra con noncuranza il busto che ho trafugato e batto le mani una contro l’altra, con veemenza, fino a farmi male.
Le parole del Presidente riecheggiano nella mia testa. Vi do il mio ardore, la mia passione, ogni fibra del mio essere. Ogni fibra. Del mio corpo, intenderà dire. Sì, dev’essere così. Come Cristo ha dato il proprio corpo agli apostoli e a coloro che credevano in lui, così ci sta invitando a fare il nostro Presidente. Vuole essere il nuovo Cristo di questa nazione allo sbando.
Mi guardo attorno. La gente intorno a me è ebbra di eccitazione e di entusiasmo. I cori scandiscono «PRE-SI-DEN-TE! VA-LEN-TI-NE!». E’ un’esaltazione contagiosa, che ci fa sentire tutti uniti in un unico spirito. Potrei aprir bocca e scegliendo con cura le parole spingere questa massa di fedeli a compiere qualsiasi cosa.
«Fratelli! Sorelle! Il Presidente ha parlato, vuole che noi, i suoi figli prediletti, portiamo avanti la sua lotta anche quando non ci sarà più. Egli ci ha indicato la via, ma sta a noi percorrerla.»
Altri scrosci di applausi, altre urla di approvazione. Qualcuno mi benedice con un «Amen fratello» pronunciato a pieni polmoni.
Mi umetto le labbra con un movimento nervoso della lingua.
«Fratelli» riprendo, «qui non si tratta più di combattere un falso presidente che ha imbrogliato per farsi eleggere. Qui si tratta di difendere un ideale, il più alto degli ideali anzi. Presidente» mi volto nella sua direzione, «Lei ci ha indicato la strada da percorrere. E noi la percorreremo. Con il Suo sangue e la Sua carne porteremo a termine il gravoso compito. Con il Suo sangue, sì, e con la Sua carne. Come Cristo sulla croce.»
Un boato sommerge le mie ultime parole. La folla è in visibilio.
Perché sgrana gli occhi, Presidente? Perché indietreggia verso l’uscita? I Suoi discepoli stanno venendo ad abbracciarla, a nutrirsi della Sua forza. Perché ha paura di noi? Non ha forse detto che bisogna rendere nuovamente grande questa nazione?
Oh, adesso ci supplica di fermarci. Ci minaccia di sbatterci in qualche prigione federale che puzza di piscio e di morte, una volta che sarà tornato al potere. Ma noi non ce la beviamo. Non può averci adunati qui solo per rimanere attaccato a una poltrona, vero? Questo è quello che fanno i cani libertari, George Burden e la sua cricca di porci arricchiti. Lei ci ha adunato qui per risvegliare le nostre coscienze e per concederci la Sua forza, in un estremo atto di cannibalismo democratico.
Il Suo sacrificio non sarà dimenticato, Presidente. E nemmeno il sapore del suo braccio, in cui affondo i denti ingordo.
Il sangue ancora caldo di Donald Valentine ruscella lungo il mio mento e la mia gola. La Sua forza scorrerà in me da oggi in poi e mi renderà un cittadino migliore, un patriota migliore.
Renderemo nuovamente grande gli Stati Uniti di Vesperia, signor Presidente.
lunedì 4 gennaio 2021
Autoritratto
Il laido sclavandario di un fato infame
esiliato dalle fauci uterine materne
su questo fazzoletto di terra jonica
con due secoli di ritardo
o forse quattro di anticipo.
La bocca che ha fame di gloria
e piange per i denti che non ha
ma continua a masticare
ferendosi nelle gengive.
L’intelletto che tutto afferra
e nulla trattiene
nelle maglie di una fantasia tracimante
di una gnoseologia avvelenata
dalla patologia del secolo ventesimoprimo:
l’oziosa modernità.
Le mani che hanno obliato
il sapore di una zolla di terriccio
fumante appena colta
ora battono abuliche sequenze di tasti.
Le viscere ricolme di idiosincrasie
di timidezze
di insicurezze
di troppa cautela
come colesterolo nelle arterie.
L’ombra sterile
la maschera frangibile
la larva di un’identità
che guardano dall’orlo del precipizio
chiamato Vita.
La molteplice vastità individuale
in eterna contraddizione con se
stessa che contiene
infinite galassie di dubbio
infinite costellazioni di pensieri.
Questo
tutto questo
sono io.