La
signora Flora Ramirez è in piedi davanti all’hologlass.
Si
sta spogliando, inconsapevole Susanna nel mirino di un invisibile peeping Tom.
Non
è bella. Le natiche mostrano i crateri della cellulite. I seni già flosci
terminano in due capezzoli troppo lunghi e stretti. La peluria tra le gambe è
incolta e irregolare. Infine il viso sembra uno di quei mascheroni baluba con
le guance scavate, gli zigomi sporgenti e i labbroni gonfi.
La
signora e il signor Ramirez si sono trasferiti nel mio vecchio appartamento
dopo la condanna. Hanno rimosso ogni traccia dei precedenti abitanti, come se
io, Trisha e Sharon non fossimo mai esistiti. Posso vagare anche per ore da una
all’altra senza trovare un solo oggetto familiare. In compenso ogni stanza è
diventata un profluvio di arredamento kitsch messo insieme a caso, per far rivoltare
ulteriormente nella tomba la mia poor poor wife, che aveva pure tanti difetti
ma di sicuro non quello del senso estetico.
Il
marito di Flora è già sdraiato sul letto, nudo, col grosso ventre rivolto in
su. Sfoggia un’erezione che sembra sbeffeggiare la mia mancanza di un corpo
fisico. Gli occhi sono spalancati e brillano di una sfumatura accesa
dell’azzurro, segno che il sistema neurocell è impostato su qualche simulazione
virtuale. Non devo fare alcun sforzo d’immaginazione per capire di quale
natura.
«Amore»
Mi
volto nella direzione della voce. Per un attimo l’immagine di Trisha si
sovrappone a quella di Flora, poi i labbroni e gli zigomi troppo pronunciati
prendono il sopravvento sul volto angelico della mia amata.
«Amore,
indovina un po’ di cosa ho voglia» continua Flora.
La
sua voce non ha niente di aggraziato o di sensuale, eppure mi provoca di nuovo
un brivido d’eccitazione. Sarà l’astinenza.
L’uomo
non ha la minima reazione, forse non l’ha nemmeno sentita. Flora alza le
spalle, non sembra sorpresa. E le sue successive parole, mentre avanza verso il
letto, me lo confermano: «Meglio così, caro».
Mi
viene istintivo venirle incontro, protendere le braccia verso il suo corpo
nudo. Se potessi stringerei quei seni cascanti tra le dita e fingerei che siano
quelli di Trisha. Scenderei a baciarle quel pube selvaggio immaginando i pendii
lisci e dolci di mia moglie.
Ma
quando provo ad abbracciarla, stringo il vuoto. Mi volto e la trovo già
sdraiata sul letto, intenta a dare il comando al proprio neurocell: «Activate
simulation number twelve: pool threesome with two black cocks»
Osservo
quei due esseri umani nello stesso giaciglio che si ignorano a vicenda e provo
una sensazione di familiarità. Io e Trisha ce ne stavamo sdraiati l’uno accanto
all’altra senza cercarci, senza nemmeno parlarci. Lasciavamo scorrere in mezzo
al letto un muro invisibile eppure invalicabile. Ricordo che in dodici anni di
matrimonio c’è stato un solo tentativo, da parte di lei, di chiedermi come
fossero andate le cose a lavoro quel giorno; e io le avevo risposto con un
sospiro e nulla di più.
Abbasso
lo sguardo alla destra del letto. Il pavimento in resina è immacolato, eppure
ricordo alla perfezione la grossa macchia di sangue scuro che si allargava dal
corpo di Trisha. L’arma del delitto, una statuina di foggia maori regalata per
il nostro matrimonio, mi era rotolata dalla mano finendole accanto a lei.
Perché
l’avevo uccisa? Me lo sono chiesto molte volte, prima e dopo il processo,
durante la prigionia, persino dopo il vanishing. E credo di aver saputo da
sempre la risposta, ma solo adesso posso ammetterla senza remore: l’ho fatto
perché mi andava. Perché a un certo punto, qualcosa dentro di me ha preso la
parola e ha detto al mio cervello: “Quanto sarebbe bello ammazzare qualcuno.
Così, per divertimento, perché non capita tutti i giorni.” E su chi poteva
ricadere la scelta della vittima, se non su Trisha? Vedi un po’ che onore ti ho
concesso, my dear wife!
Un
tuono risuona fuori dalla finestra. Anche la sera dell’omicidio tuonava, e
sull’uscio della camera Sharon piangeva. Se solo avesse trovato la forza per
fuggire, forse non l’avrei uccisa. Sure, l’avrei lasciata scappare. E invece
voltandomi me l’ero trovata di fronte, impietrita dal dolore.
«Tesoro,
non piangere», le avevo detto con tutta la dolcezza che un padre può tirare
fuori.
E
con cattiveria altrettanto smisurata le avevo stretto le mani intorno al collo.
Crack! In trentotto anni di vita non avevo mai provato una sensazione del
genere. L’inebriante sensazione di avere il potere di dare la morte.
Torno
a contemplare la coppia nel letto e la loro abulia, che poi è anche la mia e
quella di Trisha, così come di centinaia, di migliaia, di milioni di esseri
umani. Ho intravisto la porta da spalancare per rompere la stasi in cui noi
uomini moderni siamo condannati e non la richiuderò tanto facilmente, nossir!
Dal
giorno dell’incidente col vecchio junkie mi sono chiesto più volte come ho
fatto a possederlo, prima che venisse accoltellato. E mi sono dato una
risposta: in quel momento la sua mente era partita. Andata. Lost. Gone mad.
Persa dietro tutte quelle fantasticherie di sogni olografici.
Mi
chino sul nuovo padrone di casa mia. è
ancora immerso nel suo sogno virtuale erotico, lo capisco dai lampi nei suoi
occhi persi nel vuoto. Forse in questo momento la sua mente è debole tanto
quanto quella del vecchio, forse anche di più. Be’, tentar non nuoce.
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