sabato 29 maggio 2021

La condanna: parte 3

La signora Flora Ramirez è in piedi davanti all’hologlass.
Si sta spogliando, inconsapevole Susanna nel mirino di un invisibile peeping Tom.
Non è bella. Le natiche mostrano i crateri della cellulite. I seni già flosci terminano in due capezzoli troppo lunghi e stretti. La peluria tra le gambe è incolta e irregolare. Infine il viso sembra uno di quei mascheroni baluba con le guance scavate, gli zigomi sporgenti e i labbroni gonfi.
La signora e il signor Ramirez si sono trasferiti nel mio vecchio appartamento dopo la condanna. Hanno rimosso ogni traccia dei precedenti abitanti, come se io, Trisha e Sharon non fossimo mai esistiti. Posso vagare anche per ore da una all’altra senza trovare un solo oggetto familiare. In compenso ogni stanza è diventata un profluvio di arredamento kitsch messo insieme a caso, per far rivoltare ulteriormente nella tomba la mia poor poor wife, che aveva pure tanti difetti ma di sicuro non quello del senso estetico.
Il marito di Flora è già sdraiato sul letto, nudo, col grosso ventre rivolto in su. Sfoggia un’erezione che sembra sbeffeggiare la mia mancanza di un corpo fisico. Gli occhi sono spalancati e brillano di una sfumatura accesa dell’azzurro, segno che il sistema neurocell è impostato su qualche simulazione virtuale. Non devo fare alcun sforzo d’immaginazione per capire di quale natura.
«Amore»
Mi volto nella direzione della voce. Per un attimo l’immagine di Trisha si sovrappone a quella di Flora, poi i labbroni e gli zigomi troppo pronunciati prendono il sopravvento sul volto angelico della mia amata.
«Amore, indovina un po’ di cosa ho voglia» continua Flora.
La sua voce non ha niente di aggraziato o di sensuale, eppure mi provoca di nuovo un brivido d’eccitazione. Sarà l’astinenza.
L’uomo non ha la minima reazione, forse non l’ha nemmeno sentita. Flora alza le spalle, non sembra sorpresa. E le sue successive parole, mentre avanza verso il letto, me lo confermano: «Meglio così, caro».
Mi viene istintivo venirle incontro, protendere le braccia verso il suo corpo nudo. Se potessi stringerei quei seni cascanti tra le dita e fingerei che siano quelli di Trisha. Scenderei a baciarle quel pube selvaggio immaginando i pendii lisci e dolci di mia moglie.
Ma quando provo ad abbracciarla, stringo il vuoto. Mi volto e la trovo già sdraiata sul letto, intenta a dare il comando al proprio neurocell: «Activate simulation number twelve: pool threesome with two black cocks»
Osservo quei due esseri umani nello stesso giaciglio che si ignorano a vicenda e provo una sensazione di familiarità. Io e Trisha ce ne stavamo sdraiati l’uno accanto all’altra senza cercarci, senza nemmeno parlarci. Lasciavamo scorrere in mezzo al letto un muro invisibile eppure invalicabile. Ricordo che in dodici anni di matrimonio c’è stato un solo tentativo, da parte di lei, di chiedermi come fossero andate le cose a lavoro quel giorno; e io le avevo risposto con un sospiro e nulla di più.
Abbasso lo sguardo alla destra del letto. Il pavimento in resina è immacolato, eppure ricordo alla perfezione la grossa macchia di sangue scuro che si allargava dal corpo di Trisha. L’arma del delitto, una statuina di foggia maori regalata per il nostro matrimonio, mi era rotolata dalla mano finendole accanto a lei.
Perché l’avevo uccisa? Me lo sono chiesto molte volte, prima e dopo il processo, durante la prigionia, persino dopo il vanishing. E credo di aver saputo da sempre la risposta, ma solo adesso posso ammetterla senza remore: l’ho fatto perché mi andava. Perché a un certo punto, qualcosa dentro di me ha preso la parola e ha detto al mio cervello: “Quanto sarebbe bello ammazzare qualcuno. Così, per divertimento, perché non capita tutti i giorni.” E su chi poteva ricadere la scelta della vittima, se non su Trisha? Vedi un po’ che onore ti ho concesso, my dear wife!
Un tuono risuona fuori dalla finestra. Anche la sera dell’omicidio tuonava, e sull’uscio della camera Sharon piangeva. Se solo avesse trovato la forza per fuggire, forse non l’avrei uccisa. Sure, l’avrei lasciata scappare. E invece voltandomi me l’ero trovata di fronte, impietrita dal dolore.
«Tesoro, non piangere», le avevo detto con tutta la dolcezza che un padre può tirare fuori.
E con cattiveria altrettanto smisurata le avevo stretto le mani intorno al collo. Crack! In trentotto anni di vita non avevo mai provato una sensazione del genere. L’inebriante sensazione di avere il potere di dare la morte.
Torno a contemplare la coppia nel letto e la loro abulia, che poi è anche la mia e quella di Trisha, così come di centinaia, di migliaia, di milioni di esseri umani. Ho intravisto la porta da spalancare per rompere la stasi in cui noi uomini moderni siamo condannati e non la richiuderò tanto facilmente, nossir!
Dal giorno dell’incidente col vecchio junkie mi sono chiesto più volte come ho fatto a possederlo, prima che venisse accoltellato. E mi sono dato una risposta: in quel momento la sua mente era partita. Andata. Lost. Gone mad. Persa dietro tutte quelle fantasticherie di sogni olografici.
Mi chino sul nuovo padrone di casa mia. è ancora immerso nel suo sogno virtuale erotico, lo capisco dai lampi nei suoi occhi persi nel vuoto. Forse in questo momento la sua mente è debole tanto quanto quella del vecchio, forse anche di più. Be’, tentar non nuoce.


Nessun commento:

Posta un commento